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‘AFFARIN!’ (bravi, ci siete riusciti !)

di Daniele Biondo

Giardiniere apri la porta del giardino,

non sono un ladro di fiori,

io stesso mi son fatto rosa,

non cerco un fiore qualsiasi” .

(Zaer, 13 anni)

‘Affarin!‘ è un documentario bello e commovente che racconta il viaggio che due ragazzi afgani realizzano per fuggire dalla loro terra martoriata dalla guerra per approdare nel nostro paese.

La poeticità delle immagini che accompagnano i racconti di guerra di questi ragazzi non riescono a superare l’intensità dell’emozione che ci procura lo sguardo del narratore, la semplicità e crudezza di ciò che raccontano (morte, violenza, povertà ), il tono della voce assorto ed emozionato, dignitosamente composto. E poi arriva il resoconto del viaggio: la fuga a piedi in montagna dall’Afganistan fino a Kandaar, poi l’autobus fino in Pakistan, la tappa in Iran, da dove si muovono i trafficanti d’uomini (interi o a pezzi, per il traffico internazionale d’organi) verso l’Europa. Il viaggio si realizza sotto i camion, legato lì sotto per sedici ore, con il rischio di essere schiacciato. Come è successo a Zaer, che muore a 13 anni a Mestre schiacciato sotto un camion, lasciandoci un documento inedito di incredibile valore: un quadernino di poesie.

C’è un’immagine che più di ogni altra mi è rimasta impressa di questo documentario. E’ una sequenza di pochi fotogrammi che hanno la forza di un affresco, di un quadro religioso caravaggiesco: una madonna bambina, non più di dieci anni, fra le macerie della propria casa in Afganistan distrutta da un missile, che sorridente e con una luce speciale negli occhi tiene in braccio un bambino di non più di un anno cullandolo dolcemente, avvolta in uno scialle rosso sulla testa. Pergolizzi non manca di raccontare la distruzione e la morte della guerra, ma soprattutto ha scelto di raccontare quello che il sorriso di questa bambina rappresenta: un fiore fra le macerie, un raggio di luce nel buio della notte dell’umanità. Mi sono sempre chiesto come si fa a rimanere vivi, psichicamente vivi, dopo aver attraversato l’inferno della guerra, della morte e della distruzione? Bisogna tenersi stretti a qualcosa, qualcosa di molto prezioso che ci permette di sopravvivere: per questa bambina è la sua funzione di cura per quel bambino, la necessità di non abbandonarsi allo sconforto perché c’è una vita nuova di cui occuparsi, la parte più fragile e bisognosa di se stessa. Per questo motivo quest’immagine mi sembra racchiudere la condizione del profugo, che deve restare in vita per salvare non solo se stesso, ma anche la speranza di far ricrescere la propria patria, di portare pace e tranquillità dove c’è morte e distruzione. Al foulard rosso di questa madre bambina possiamo associare il verso di Fabrizio De Andrè , contenuto  nella canzone “L’infanzia di Maria” (dell’album “La buona Novella”): ”La tua verginità che si tingeva di rosso”. Un’associazione che rimanda al pubertario, alla potenza del processo pulsionale che fa da motore allo sviluppo. E così possiamo comprendere come il viaggio del profugo sia profondamente collegato a quello di ogni essere umano, continuamente migrante da una condizione all’altra, nell’incessante processo di soggettivazione che impegna tutta la nostra esistenza. Ma per soggettivarsi occorre l’incontro con l’Altro. Il film di Pergolizzi ci interroga e ci incalza su questo:  chi riesce ad  essere quest’Altro? La risposta a questa domanda viene da alcuni dei momenti più toccanti e significativi del documentario: compare il vecchio prete di strada che sa accogliere nel suo oratorio salesiano tutti i ragazzi del mondo, indipendentemente dal loro credo; compaiono gli educatori bolognesi del centro di seconda accoglienza, che sanno costruire familiarità, affetti, progetti educativi e d’integrazione; compare l’imprenditore che sa comprendere, perché emigrante anche lui, che non ha dimenticato la sua storia, e dunque integra, s’immedesima, offre la più grande occasione di riscatto che è il lavoro, quello rispettoso che non sfrutta e non si approfitta ignobilmente della condizione di debolezza del migrante, del profugo; compare soprattutto il gruppo, la comunità d’origine che permette ai ragazzi profughi di ritrovare la propria patria, le proprie radici, parlare la propria lingua, ritrovare i propri sapori, condividere la struggente nostalgia per la terra natia, la musica le danze, il ritmo, la gioia di vivere e finalmente ballano e sorridono!

Nel link che segue potete godervi il documentario:

In the following link you can enjoy the documentary

Anno di produzione: 2010

Durata: ’84

Paese: Italia

Regia: Vincenzo Pergolizzi

Soggetto: Storie di giovani afghani in fuga dalla guerra

Sceneggiatura: Vincenzo Pergolizzi

Fotografia: Giuseppe Di Vanni – Vincenzo Pergolizzi

Montaggio: Federica Ravera

Distribuzione: Galata Produzioni Culturali – Bologna

Selezionato a:

– Prix Europa Berlino 2011

– Bari Film Festival 2011

– Unplugged Culture Festival 2011

5 2 Voti
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Paolo Fradeani
Paolo Fradeani
1 anno fa

Toccante il documentario in ogni sua inquadratura e quegli sguardi rapiti di questi due ragazzi afgani che guardano quei fuochi d’artificio rappresentano quel magma sognante …quell’esplosioni abbaglianti che non fanno male e che vorrebbero ritrovare nel loro Paese.

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