di Cosimo Schinaia

Abstract

Il libro fotografico I Travestiti di Lisetta Carmi è il frutto di un lavoro di immagini e ricerca sull’identità sessuale durato dal 1965 al 1972 sulla e nella comunità dei travestiti del centro storico di Genova. Il libro ha avuto la prefazione di Elvio Fachinelli che, per entrare in sintonia con il loro mondo, con le loro fantasie, con le loro difficoltà esistenziali, ha vissuto per un certo periodo con loro. I travestiti, considerato all’epoca scandaloso e rifiutato dai canali di vendita ufficiali, non è più in circolazione da decenni e oggi è diventato un libro di cult. Lisetta Carmi avrebbe voluto che fosse ripubblicato e mi chiese una presentazione che aggiornasse quella di Fachinelli del 1972. Io accolsi la sua richiesta con una notevole apprensione, essendo conscio della responsabilità che mi assumevo dopo la bella, colta e politicamente impegnata scrittura di Fachinelli, ma il suo amichevole incoraggiamento fu tale da farmi superare le iniziali titubanze. Purtroppo, insorte difficoltà editoriali e la morte avvenuta quest’anno nella sua casa di Cisternino non hanno reso possibile il progetto di pubblicazione. Ringrazio il sito “Psicoanalisi e sociale” per la pubblicazione della nuova introduzione, di cui alcune parti sono comparse per accompagnare le sue foto in una mostra a Bari di alcuni anni orsono.

INTRODUZIONE ALLA NUOVA EDIZIONE DEL LIBRO FOTOGRAFICO “I TRAVESTITI” (ESSEDI, ROMA, 1972) DI LISETTA CARMI. di Cosimo Schinaia

Lo scritto di Elvio Fachinelli che introduce e commenta le belle fotografie di Lisetta Carmi mostra ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, tutta la sua freschezza, la sua innovatività, la sua pregnanza anticonformistica.
Fachinelli aveva già dato più di una spallata all’istituzione psicoanalitica, distinguendosi per la sua spiccata capacità di unire la radicalità della sua critica alla cultura accademica, il profondo interesse per una cultura rinnovata che si facesse carico anche dei problemi e della vita quotidiana delle persone, allo studio e alla pratica della psicoanalisi, intesa come un importante strumento di liberazione delle forze inconsce.
Come preso tra Scilla e Cariddi, Fachinelli si dibatteva tra due polarità: “Il desiderio di liberare aspetti prigionieri dell’inconscio, facendoli emergere alla superficie della vita quotidiana, là dove cambiano di accento e si declinano in forme socialmente condivise, ma portano ancora una traccia delle forze originarie che li hanno mossi e la consapevolezza vivificante di ciò che non può essere cambiato nel soggetto umano, che affonda in radici vincolari che lo emancipano da una dipendenza eccessiva dalle suggestioni dell’ambiente circostante, qualcosa che è
tra il biologico, il filogenetico e il culturale.” (Ferruta, 1998)
Ricordo il suo ruolo nella costruzione dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, la nascita della rivista “L’Erba Voglio”, in cui venivano poste in relazione la psicoanalisi con le questioni mosse dai movimenti antiautoritari e l’attiva partecipazione al controcongresso di Roma nel 1969, alternativo al congresso ufficiale dell’International Psychoanalytic Association; furono esperienze sociali alternative sentite e proposte come non ingenue, ma anzi assolutamente necessarie a controbilanciare quei limiti, quei vincoli naturali di cui pure era pessimisticamente e razionalmente cosciente.
Non uno psicoanalista chiuso nel suo studio e lontano dai cambiamenti culturali che attraversano la società, ma attore di questi cambiamenti, partecipe dei fermenti sociali del suo tempo.
Pur essendo considerato da Cesare Musatti il suo allievo e analizzato più intelligente, pare che dovette subire molte critiche da lui per questa introduzione, sia per l’argomento trattato, fino ad allora quasi estraneo alla psicoanalisi, fatta eccezione per gli studi sullo specifico travestitismo feticistico, sia per le critiche espresse alla psicoanalisi, come incapace di osservare un fenomeno sociale, i travestiti, con la stessa curiosa profondità che traspare dalle foto di Lisetta Carmi.
Lisetta mi ha chiesto di “rileggere” le sue fotografie a distanza di mezzo secolo, per verificare se qualcosa è cambiato rispetto al passato, se la cultura psicoanalitica ha affrontato più a fondo e più compiutamente i temi del travestitismo e del transessualismo con le relative implicanze soggettive, relazionali e sociali, se è possibile integrare l’antico, e però sempre attuale, sguardo del fotografo con quello dello psicoanalista, oppure se si deve accettare come ineluttabile una certa quota di strabismo osservativo.
Sicuramente rispetto al passato si può affermare che l’interesse per i problemi delle persone che ricorrono al travestimento e, più direttamente al passaggio al cosiddetto “terzo sesso” , è aumentato, anche perché non si tratta più di singoli quadri individuali ma di fenomeni sociali coinvolgenti interi gruppi di persone. Il tentativo di comprensione delle dinamiche individuali e relazionali è obbiettivamente diventato più significativo e sono molto importanti recenti studi in tal senso condotti nell’infanzia e nell’adolescenza .
La risposta che spesso viene data a giustificazione di un’attenzione ancora non del tutto commisurata all’entità della portata sociale del fenomeno e al carico di angoscia e sofferenza spesso presenti in queste persone è che i travestiti e i transessuali generalmente non si rivolgono allo psicoanalista, né richiedono specificamente un trattamento analitico ma, rafforzando una loro visibile identità gruppale, tendono a richiedere il riconoscimento sociale della propria condizione piuttosto che a curarsi. Tutto ciò corrisponde a verità, tuttavia sono sempre in maggior numero gli psicoanalisti che operano nell’istituzione o che lavorano con casi gravi attraverso un setting modificato e pertanto non si capisce, pure a fronte di obbiettive difficoltà a stabilire una canonica relazione analitica, perché uno psicoanalista debba fermarsi nella sua indagine e nella sua cura quando le fantasie si sostanziano In condotte che interessano gruppi di persone numericamente sempre più rilevanti, quando dall’ordine simbolico si passa concretamente all’ordine biologico.
Chiland (1996) scrive:
“Bisogna rispondere a coloro che sostengono che il trattamento del transessualismo è la psicoterapia e a coloro che sostengono che il transessualismo è inaccessibile alla psicoterapia. I primi spesso non hanno mai visto transessuali e, quindi, è per loro facile blaterare su quello che bisogna fare. I secondi contribuiscono a creare o rinforzare l’inaccessibilità alla psicoterapia, come ha fatto Benjamin, proponendo gli ormoni e la chirurgia.” (p. 46)
Tutto lo sviluppo psicosessuale si dipana tra le polarità della fusione e confusione e della differenziazione. Più che a rigide tappe dello sviluppo, come ci vengono proposte dalla Sexualtheorie freudiana, centrata sulla classica soluzione edipica, cioè sull’integrazione delle pulsioni parziali sotto il primato genitale, bisogna pensare a continui tentativi da parte del bambino o dell’adolescente di cercare una possibile soluzione della contraddizione tra le percezioni interne del proprio genere e la realtà del corpo.
“L’identità sessuale – afferma ancora Colette Chiland (1996) – è in ognuno di noi una credenza. Nei casi ordinari, abituali tutto viene a rinforzare questa credenza, che, pertanto, per noi diventa sapere oggettivo.”
L’impatto di queste contraddittorie credenze con una realtà culturale non univoca come quella attuale, in cui le figure del post-moderno, quali il vuoto costitutivo e la decostruibilità di ogni identità, si sposano con una assenza
del limite per cui la dicotomia maschile/femminile viene ridisegnata in termini sempre meno forti fino a prefigurare la possibilità, da alcuni considerata non più fantascientifica, che un uomo possa partorire e una donna fecondare, ci porta a rimettere in discussione i nostri modelli teorici sullo sviluppo psicosessuale in cui prevalgono “sequenze lineari e necessarie invece che reticoli percorsi da movimenti plurali di “va e vieni” in cui si compongono e scompongono organizzazioni esposte a continue riorganizzazioni.” (Barale e Ferruta, 1997)
Queste osservazioni si ritrovano in Claudio Magris che si rifà a Nietzsche:
“Nel suo Ubermensch Nietzsche non vedeva un superuomo, un individuo potenziato nelle sue capacità e più dotato degli altri, ma […] un “Oltre-uomo”, una nuova forma dell’Io, non più compatto e unitario, bensì costituito da “un’anarchia di atomi”, da una molteplicità di nuclei psichici e di pulsioni non più imprigionate nella rigida corazza dell’individualità e della coscienza. Oggi la realtà sempre più “virtuale” è lo scenario di questa possibile mutazione dell’Io.” (Magris, 1999, p. 8)
Ci può essere quindi una risoluzione affrettata della fisiologica incertezza sentita come insopportabile transizione, attraverso l’adesione a modelli culturali confusi ma sempre più condivisi soprattutto fra le nuove generazioni, quali quelli offerti da famose rockstar, che vanno dall’ermafroditismo asessuato di Michael Jackson, definito da Baudrillard mutante, essere geneticamente barocco, gender-bender, al travestitismo prorompente e provocante di Boy George, emblema di una femminilità tanto debordante quanto in realtà inesistente.
La presa di coscienza di un desiderio sessuale rivolto ad altri uomini può essere messa in relazione con l’inaccettabilità, con l’orrore del desiderio omosessuale e in tal modo giustificare il passaggio all’altro sesso, che consentirebbe un’illusione di richiamo sessuale secondo eli stereotipi della seduzione femminile? (Baldaro Verde, Graziottin 1991)
E questa risoluzione affrettata può essere in relazione oltre che con i modelli culturali prevalenti (si pensi al travestito del film “Tutto su mia madre” di Pedro Aldomovar, che diventa padre del figlio nato da una suorina) anche con la conflittualità e l’interna molteplicità di ogni identità di genere liberata dalle rigidità culturali che l’avevano in un certo senso ingessata e repressa?
“Il disagio post-moderno velocemente transita dall’indefinizione alla precoce visibilità di involucri provvisori. La visibilità è un carattere fortemente cercato, contrariamente al passato, nella diffusione contemporanea di molte perversioni. […] Non è solo una superficiale ricerca di legittimazione sociale. La ricerca spesso iperbolica di visibilità sembra aver a che fare con un’angoscia feticistica, con un vuoto di rappresentabilità, che si staglia nel continuum spesso magmatico tra angoscia di dissoluzione del sé e angoscia di castrazione.” (Barale, Ferruta, 1997)
“Non è neppure narcisismo, è un’estroversione senza profondità, una sorta di ingenuità pubblicitaria in cui ciascuno diventa l’impresario della propria apparenza.” (Baudrillard, 1990, p. 30)
“Cross-dressers e transessuali sono visti così come maschere iperboliche di una soggettività instabile e disseminata, all’interno della quale non è più riconoscibile alcun “nucleo” e di conseguenza alcuna distinzione tra vero e falso sé; ma solo sé aperti, che prendono forma, si organizzano, disorganizzano nelle relazioni in atto; identità provvisorie.” (Barale, Ferruta. 1997)
Come mettere insieme il narcisismo onnipotente sottostante le fantasie prima e l’eventuale progetto transessuale dopo, da sempre cavallo di battaglia della psicoanalisi clinica che sottolinea la difficoltà a fare i conti con la separazione e il lutto? Una difficoltà quindi a operare le necessarie differenziazioni con le affermazioni postmoderne che garantiscono un pieno statuto culturale
all’incompiuto, all’indifferenziato, descritto come luogo abitabile e abitato da legittimi comportamenti, luogo reso
sempre più visibile (talvolta accecante) e non più definito come moralisticamente perverso (in un’ intervista Aldomovar afferma che il travestitismo è per lui una metafora esistenziale e il corpo del travestito una pagina bianca su cui scrivere).
Sono vari e complessi i fattori genetici, biologici, psicologici, familiari e sociali che a vario titolo contribuiscono allo sviluppo di un’organizzazione di un’identità di genere atipica (la predisposizione genetica e il condizionamento ormonale sono condizioni necessarie, ma non sufficienti) e altrettanto vari e complessi i fattori che entrano in gioco nel determinare la risposta terapeutica nel momento in cui un ragazzo o un giovane uomo (la richiesta è prevalentemente maschile) richiedono un intervento chirurgico irreversibile per cambiare sesso alterando le proprie caratteristiche somatiche. Entrano in gioco fattori di ordine etico (le proposte di alcuni chirurghi plastici a volte più che onnipotenti paiono deliranti), ma ancora di più una valutazione approfondita se non sia meglio attendere e lavorare per l’accettazione da parte del giovane e del suo entourage della diversità, per un approfondimento del suo significato, piuttosto che rispondere quasi automaticamente con intervento chirurgico che, se non valutato in tutte le sue implicazioni che in ogni caso sono
irreversibili, può creare problemi psicopatologici superiori per gravità rispetto al pur sofferente stato psicologico di partenza (depressione, idee di suicidio).
È innegabile che nel nostro tempo il concetto di integrità corporea sia in crisi. Il corpo non resta più uguale a sé stesso per tutta la vita dalla nascita alla tomba, ma subisce una serie di modificazioni che possono stravolgerne l’identità originaria, costringendo il suo portatore a una serie successiva di aggiustamenti che costituiscono le basi per successive identità transitorie. Non si tratta di un fenomeno nuovo in assoluto, basti pensare ad alcuni riti di passaggio come la circoncisione o a forme di mutilazione del corpo femminile come l’infibulazione, che resistono in alcune culture nonostante le gravi conseguenze.
“Il corpo non è un dato biologico. afferma Donna Haraway (1991) , ma un campo di iscrizioni di codici socioculturali.”
“La tecnologia adempie al destino biologico degli umani in modo tanto intimo che l’organico e il tecnico si complementano e si adattano a vicenda. Questa reciproca ricettività dell’organo alla sua estensione tecnica, dalla biologia alla tecnologia, è il motivo per Haraway, come per Canguilhelm e Foucault, per abbandonare la distinzione natura-cultura a favore del discorso sul biopotere.” (Braidotti, 1995, p. 19)
Oggi però “siamo di fronte a una ingegneria del corpo che non solo agisce largamente in superficie, per la parte visibile, ma anche all’interno, non solo come era nella tradizione per asportare qualcosa – e questa è la tradizione
chirurgica che risale alle più remote culture – ma per sostituire, per introdurre. E qui naturalmente sono aperte due direzioni: da un lato quella dei trapianti d’organo e dall’altro lato attraverso strutture artificiali, le protesi che vengono innestate.” (Sanguineti, 2000)
Un corpo macchinico piuttosto che un organismo, che propone a tutti i livelli profonde ristrutturazioni psicologiche. Si tratta di un corpo costruibile, liberato dalle costrizioni della natura, riplasmato nelle palestre, dalle diete, dalla chirurgia plastica, dal make up, in base all’immagine di corpo propagata dai media. Alcuni fenomeni come la body art, o il tatuaggio o il piercing, che
modificano stabilmente il corpo, determinano profonde modificazioni della relazione mente-corpo, in quanto il corpo tende ad allontanarsi dalle condizioni naturali e diventa esso stesso condizione sociale, luogo possibile di molteplici identità opzionali.
Sanguineti pensa che una modificazione del rapporto fra lo e corpo non sia necessariamente una modifica angosciosa, una perdita.
“Oggi abbiamo del corpo una visione molto più razionale. La scienza con la scoperta del Dna ha spiegato come siamo fabbricati, mettendo in crisi l’idea un po’ mitologica che noi avevamo del corpo. […] Una manipolazione esterna del corpo oggi molto ricercata – basti pensare alla chirurgia plastica – è il segnale di un rapporto molto più tranquillo con il proprio corpo.” (Sanguineti, 2000)
Ma è proprio cosi, e in ogni caso, è proprio sempre cosi? L’accettazione del limite, seppure spostato in avanti grazie alle nuove tecnologie, non resta un fondamentale fattore dello sviluppo?
Negare magicamente o tecnologicamente la necessità non del limite, ma della sua accettazione, non ha a che vedere con modelli culturali imposti dal mercato, per cui basta pagare e tutto è possibile e dalla pubblicità, che propone illusoriamente sempre donne e uomini bellissimi, sessantenni con il corpo da trentenni?
I media affermano:
“Oggi si può trasformare una donna in uomo e un uomo in donna. […] No, non si trasforma una donna in uomo e un uomo in donna, si giunge a dare a chi lo richiede un’apparenza di uomo o un’apparenza di donna; si può in
certi casi ottenere un cambiamento di stato civile. Non si cambiano i cromosomi […] gli organi genitali interni […] e uscendo dal mero piano biologico, non si cambia la storia della vita.” (Chiland, 1996, p. 46)
“Le categorie del rischio e dell’incertezza, così come il tempo dell’attesa, vengono messe in secondo piano da quelle dell’assicurazione e dell’immediatezza senza limite, in quanto queste ultime sono abusivamente ed erroneamente promesse dal nostro sociale in modo implicito.”(Lebrun, 1997, p. 153)
“II concreto del possesso senza differimento alcuno ha la sua valenza seduttiva in una deriva in cui tutto può equivalersi, omogeneizzato dall’unico bisogno che va onorato: quello di afferrare, di dominare, di possedere, di avere piuttosto che di essere. L’avere non coincide più con l’essere, e non si riconosce più che è solo l’accettazione del finito a dare la possibilità di schiudere orizzonti infiniti, sanando la contrapposizione soggetto-oggetto, interno-esterno, natura-cultura.” (Racalbuto, 1999, p. 51)
E ancora il rapporto identità – cambiamento, cosi come ce lo hanno proposto Leon e Rebeca Grinberg , non si basa su una sufficiente stabilità emozionale dell’identità originaria, che permette di tollerare i diversi cambiamenti che l’esistenza propone senza per questo sentirsi altri, estranei rispetto ad essa?
Baudrillard (1990) dice che il corpo era la metafora dell’anima, poi divenne la metafora del sesso, oggi non è più la metafora di nulla, è il luogo della metastasi, della concatenazione macchinica di tutti i suoi processi, di una programmazione all’infinito senza organizzazione simbolica, senza obiettivo trascendente, nella pura promiscuità con sé stesso, che è anche quella dei sistemi reticolari e dei circuiti integrati.
Sanguineti e Baudrillard rappresentano lo stesso corpo, il primo con accenti trionfalistici, il secondo pervaso da estremo pessimismo, entrambi convinti, però, dell’ineluttabilità di un neocorpo differente dal corpo tradizionale e non più rispondente alle antiche leggi della natura, togliendo ogni senso al lavoro del lutto e ai processi trasformativi inerenti i continui aggiustamenti del dinamico equilibrio fra identità e cambiamento.
“Perchè questa società come difesa contro la depressione di un lo sempre più sopraffatto da messaggi seduttivi e narcisistici, che stimolano aspetti imitativi più che processi identificativi, propone o difese maniacali, come le illusioni di dominio e di controllo che il consumismo promette, o si sprofonda nel catastrofismo più assoluto, in un rigurgito di nichilismo (niente più vale, nulla merita di essere vissuto)?” (Racalbuto, 1999, p. 52)
La prima associazione che mi è venuta in mente quando ho dato una prima scorsa alle fotografie di Lisetta è stata quella con i primi gruppi di immigrati in un paese straniero che, proprio per rafforzare la loro identità gruppale messa in scacco dalle norme culturali del paese ospitante, assumono atteggiamenti iper-tradizionalistici e iper-folcloristici compensatori. Tutte le feste vengono preparate con un pieno e forse esagerato culto dei particolari, le tradizioni devono essere assolutamente rispettate, la lingua, il dialetto rigidamente conservati ad onta di tutte le contaminazioni storiche che invece subiscono nei luoghi originari. Eppure c’è qualcosa di dissonante, di disarmonico nella ricerca della purezza femminile da conservare; viene trasmessa attraverso le fotografie la sensazione di persone che sono sempre in un luogo altro e che vivono una vita altra rispetto a quella che naturalmente sarebbe stata la propria. I personaggi fotografati e messi in scena possono provare lo stesso senso di spiazzamento dei bambini con problemi di identità di genere.
“I loro interessi, i loro giochi, le fantasie, il loro modo di muoversi e di parlare, di rapportarsi agli amici o anche il modo in cui vedono sé stessi non corrisponde al corpo che hanno, né al modo in cui gli altri li vedono a causa del loro aspetto fisico. Si potrebbe dire che la loro psiche vive in un corpo straniero.” (Di Ceglie, 1998)
Eppoi, quell’esibizionismo cosi pronunciato, quegli atteggiamenti posturali cosi sguaiatamente privi di grazia perchè devono prima di tutto meravigliare, colpire, sconvolgere, oppure quegli atteggiamenti eroticamente ma sommessamente seduttivi, quegli sguardi in ogni caso imploranti attenzione, condivisione del proprio stato sospendendo ogni giudizio, nonostante in apparenza vogliano trasmettere l’idea del bordello, del gineceo solidale e un po’ triste che abita i casini, non si costituiranno come formazione reattiva alla cupa segretezza a cui da bambini i travestiti sono stati quasi certamente costretti?
Il bisogno di sopravvivenza emotiva a fronte di sentimenti e sensazioni cosi confusi come quelli che invadono l’anima di chi non sa chi è, può condurre ad atteggiamenti di segretezza che a loro volta possono dare corpo ad una sorta di vita parallela clandestina iperinvestita e quindi idealizzata, qualcosa di speciale che gli altri non hanno e che va ipervalorizzato proprio mentre resta scisso.
Per Freud non c’è per il bambino che un organo sessuale, il pene: lo si ha e si ha paura di perderlo (angoscia di castrazione nei maschi) oppure non lo si ha e allora lo si desidera perdutamente (invidia del pene nelle femmine). La tesi centrale da lui sostenuta nel breve saggio sul feticismo (1927) consiste proprio nell’incapacità di superare l’angoscia di castrazione. Possiamo leggere e interpretare quanto Freud scrive nei termini che entrambi i sessi hanno in comune l’angoscia per tutto quanto possa attentare all’integrità del proprio corpo.
“L’angoscia si focalizza sulla perdita di ciò che ci designa membri del nostro sesso: la potenza, la forza, il pene per l’uomo, per la donna il potere di attrarre chi si rivolge all’insieme del suo corpo (il suo viso, i suoi seni, i suoi capelli) e, in modo più accentuato in alcune culture, la fecondità e più particolarmente la capacità di dare alla luce un figlio maschio.” (Chiland, 1993)
Robert Stoller (1992) rovescia il ragionamento freudiano; siccome il bambino ha un percorso più difficile rispetto alla bambina, per emergere dalla simbiosi con la madre e arrivare a un’identità maschile (disidentificazione dalla madre e identificazione con il padre), è più facile per lui in questo complesso percorso, subire traumi o pressioni ambientali che compromettono il suo sviluppo psicosessuale e facilitano l’ingresso nella perversione.
“L’importante novità introdotta da Stoller riguarda il fatto che l’identità di genere, lungi dall’essere un fatto individuale dipendente dall’anatomia […], riconosce come fattore determinante le aspettative, o meglio l’immaginario dei genitori e la pressione psicologica da essi esercitata sul neonato. […] Ci sarebbe quindi nella visione di Stoller un conflitto fra natura e cultura, in cui prevale la cultura.” (De Masi, 1999, p. 89)
I travestiti delle fotografie commettono “in tutta tranquillità il doppio crimine di leso-Freud, attraverso il loro desiderio di castrazione e di leso-femminismo attraverso il loro iperconformismo sociale.” (Chiland, 1993)
Essi si conformano agli stereotipi sociali e non si permettono di criticarli. Pur essendo diversamente rappresentate le figure della femminilità, come anche Fachinelli sottolineava nella prima introduzione, per cui si va dal maschietto con i capelli corti, che lascia intravvedere la sua anima femminile attraverso le tipiche movenze o i seni appena appena accennati alla tettona che incarna una sorta di archetipo felliniano della femminilità, sono sempre, però, tutte attraversate da un che di esagerato che vuole ridurre (ma non ci riesce) la sensazione di tragica
mancanza che appartiene a queste fotografie.
Se dovessimo guardare le generazioni successive di immigrati, noteremmo profonde differenze; la lingua originale probabilmente sarebbe dimenticata cosi come le originarie usanze e l’integrazione con il mondo circostante e ospitante si costituirebbe, per quanto ancora in termini conflittuali, più realisticamente come situazione esistenziale accettabile e accettata. Il corpo come macchina piuttosto che come organismo, travestito, mutilato, trapiantato, radicalmente modificato sarebbe (almeno in parte) un corpo socialmente accettato e la disponibilità emotiva ai notevoli cambiamenti psicologici derivanti dal neocorpo sarebbe maggiore rispetto agli anni in cui le fotografie di Lisetta sono state scattate.
Ecco perchè bisogna accostarsi alle fotografie di Lisetta con affettuoso e rispettoso tatto, con quella stessa garbata curiosità con cui lei ha avvicinato i suoi personaggi: si tratta di pionieri, di eroici viaggiatori nel mondo delle nuove identità e si portano dentro, ma anche fuori, nei loro sguardi, nelle loro posture, nei loro atteggiamenti, nel loro stare insieme, tutto il carico di ansia che opprime chi per primo si avventura nell’esplorazione di luoghi sconosciuti ed entra in contatto con lingue ignote, con impervi territori fino a quel momento considerati inaccessibili e quindi inesplorati. Un esploratore carico del suo passato, modellato fin da bambino in funzione del sesso che gli è stato assegnato alla nascita e dalle proiezioni consce e inconsce dei propri genitori e del mondo intorno e non ancora circondato da un’accettazione sociale che possa favorire le profonde ristrutturazioni emotive ed affettive in ogni caso necessarie per non diventare preda di scissioni patologiche anche di notevole entità.
Eroici viaggiatori loro, ma anche eroica e visionaria viaggiatrice Lisetta Carmi che, insieme a Fachinelli, abbandonando soggetti tradizionali, ha attraversato le colonne d’Ercole del consueto e del conformistico e si è immersa nel gomitolo dei vecchi caruggi del centro storico genovese alla ricerca di quanto di basale esiste nell’essere umano, aldilà di ogni identità e di ogni sua tradizionale rappresentazione. L’allegria, l’ingenuità, la speranza sospirata, I’ amicizia, la solidarietà, la tristezza, l’odio, l’aggressività, la disperazione, la stanchezza, la paura sono i sentimenti che compongono questi volti, questi corpi, questi gruppi fotografati, diversamente miscelati, mai completamente amalgamati.
Figure ambigue dell’umanità si offrono al nostro sguardo, come ambigui sono i sentimenti delle donne e degli uomini, mai bianchi, mai neri, mai grigi e sempre un po’ bianchi, un po’ neri, un po’ grigi. Grazie Lisetta per averci coinvolti e averci fatto sentire prima di capire, guardare prima di osservare, partecipare prima di prendere le distanze.