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La crisi ecologica e la sofferenza psichica. Note su psicoanalisi e ecologia – Cosimo Schinaia

di Cosimo Schinaia

 

Abstract

L’articolo fa il punto sugli aspetti psichici del rapporto tra l’uomo e l’ambiente a partire da Freud. Dopo le prime intuizioni freudiane, importanti e aperte anche se intrise di antropocentrismo e dell’idea dello sviluppo illimitato, centrale nei primi del novecento, bisogna attendere gli scritti di Searles per approcciare le tematiche ecologiche. È a partire dagli anni duemila che il tema diventa più frequentato dagli analisti che si soffermano sulla descrizione dei meccanismi di difesa che si oppongono alla presa di coscienza della grave crisi ecologica. Apatia, rimozione, negazione, diniego, negazionismo, scissione, dislocamento di volta in volta vengono messi in evidenza sia a livello individuale che gruppale, affinché se ne tenga conto nella lotta all’emergenza climatica.

Introduzione

La mancanza di attenzione verso la perdita della biodiversità negli ecosistemi ha favorito l’insorgenza della pandemia Covid-19 attraverso il non riconoscimento dell’interazione fra le condizioni di vita dei diversi organismi che popolano il pianeta, come rilevato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Fra le cause principali ricordo il sistema di produzione del cibo a livello mondiale basato sugli allevamenti e le colture intensive, l’urbanizzazione e lo sfruttamento eccessivo del suolo, la deforestazione e la continua distruzione degli habitat naturali che aumenta il rischio di malattie infettive, avvicinando gli esseri umani e gli animali domestici alla fauna selvatica portatrice di agenti patogeni e interrompendo i processi ecologici che tengono sotto controllo le malattie.

Oggi che, a causa della pandemia, il conflitto tra le libertà individuali, sanciti dal principio di autodeterminazione e le esigenze di protezione sociale, sancite dal principio di utilità collettiva, è diventato più acuto, è ancora più necessario esplorare il rapporto tra la sofferenza individuale e le organizzazioni simboliche e le pratiche curative della comunità di appartenenza attraverso lo scambio osmotico tra l’interno e l’esterno, tra il conscio e l’inconscio, tra individuo e gruppo, tra organizzazione mentale e organizzazione sociale, tra natura e cultura. I passaggi, gli andirivieni tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’, tra lo spazio mentale e lo spazio esterno, il continuo instabile ridefinirsi delle relazioni tra i due territori, attraverso i loro mutamenti, le loro trasformazioni, le loro riorganizzazioni, si costituiscono come una questione assai delicata, sia a livello psichico individuale che collettivo. Non possiamo attestarci sull’immagine di un ambiente che sia solo un fuori sganciato dalla rappresentazione che ne abbiamo al nostro interno (Schinaia, 2016). Risulta impossibile parlare di un immaginario individuale senza considerare quello collettivo che lo sottende e, anzi, lo influenza e lo riorienta in un rapporto di codeterminazione reciproca. I collegamenti servono a fare da spola tra ambiti che trovano il loro senso solo se messi in relazione, perché è la loro interdipendenza che può dare conto della complessità delle cose. Se si prescindesse da uno dei termini o anche dalla interrelazione tra tutti quelli nominati, si verificherebbe un’amputazione, una parzialità limitativa. Qualsiasi organismo vivente crea le condizioni di vita per degli altri diversi organismi che popolano la Terra. Recenti ricerche hanno dimostrato che i geni non si spostano soltanto in senso verticale, da una generazione alla successiva, ma anche lateralmente e che possono attraversare i confini di specie e passare da un regno all’altro.

Partendo da queste iniziali considerazioni, dobbiamo porci alcune domande:

Come fare fronte alla netta contraddizione tra, da una parte, le immagini del progresso, dell’inesauribile, dello sviluppo illimitato che si è eretto a modello assoluto e, dall’altra, le carestie e le informazioni sul clima che drammaticamente ci piovono addosso? Come raccapezzarci tra immagini e informazioni così in conflitto tra loro? Com’è possibile che l’umanità sappia che il suo modo di vivere la mette in pericolo senza essere capace di modificare tale sistema di vita in relazione al pericolo che la minaccia? Un individuo che adottasse un tale comportamento sarebbe considerato folle o suicida.

Quanto è intrisa di intensa conflittualità la condizione umana! Sterminiamo altre specie viventi e poi ci affanniamo per salvaguardarle dalle estinzioni; distruggiamo l’ecosistema e diamo l’allarme per salvare il pianeta; costruiamo abitazioni fragili in zone sismiche e, quando viene un terremoto, scopriamo virtù eroiche, rischiando la nostra vita per tentare di salvarne anche una sola dalle macerie. In “I sommersi e i salvati”, Primo Levi identifica quella zona grigia dell’umano in cui coesistono spinte emotive, affettive, etiche di diverso ordine, anche opposte fra loro, di cui bisogna tenere conto soprattutto nelle situazioni catastrofiche.

Soggetto sensibile, incandescente, polemico, conflittuale, più in particolare un tema di interrogazioni e di preoccupazioni, ma anche di diffidenza e di presa di distanza, l’ambiente è diventato uno dei simboli indissociabili della società moderna.

Oggi prevalentemente si pensa che possa essere studiato solo ciò che è misurabile, escludendo aree della soggettività umana, quali i nostri sentimenti verso la natura e i cambiamenti climatici e il nostro senso di empatia e di connessione con le altre specie, ma Papa Francesco, commentando la testimonianza di Francesco d’Assisi nell’enciclica Laudato si’, afferma che:

L’ecologia integrale richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e ci collegano con l’essenza dell’uomo.

L’atteggiamento conoscitivo di papa Francesco è rafforzato dalle parole di Albert Einstein, che, pare, abbia detto: “Non tutto quello che può essere contato conta e non tutto quello che conta può essere contato[1], dando anch’egli valore agli aspetti emotivi soggettivi che entrano in gioco anche nelle scienze sperimentali.

Degli ammonimenti di Francesco e di Einstein dovrebbero trarre profitto molti discorsi ambientalistici che, basandosi soltanto sulla descrizione drammaticamente oggettiva della catastrofe a cui stiamo andando incontro, non tengono conto della potenza delle difese psichiche a livello individuale e gruppale, che vengono a minare la consapevolezza dell’oggettività del danno provocato e subito al tempo stesso, e che fanno del nostro tempo l’epoca della grande cecità, come scrive Amitav Ghosh (2016).

Brevi note sul rapporto uomo-natura in Freud

Fuori da questo mondo non possiamo cadere.

Sigmund Freud, “Il disagio della civiltà”, 1929, p. 558[2].

Sigmund Freud, uomo del suo tempo, ha nei riguardi della natura un atteggiamento oscillante e ambivalente. Da un lato anticipa la tendenza attuale a guardare all’ambiente naturale in termini conflittuali e difensivi, proponendo una Madre Natura terribile e potente, dalla forza soverchiante, selvaggiamente disordinata, mai veramente addomesticata e amica, e annoverandola tra le principali fonti della sofferenza umana, da cui l’uomo, descritto come un bambino debole, indifeso e spaventato, dovrà sempre proteggersi. La civilizzazione risulta al servizio della difesa dalla furia della natura sia in termini interni che esterni.

Da un altro lato, però, contemporaneamente relativizza la glorificazione della tecnica, mettendoci in guardia contro il suo uso per fini eminentemente utilitaristici e scrive: “Pretendiamo altre cose dalla civiltà e che l’industriosità degli uomini si applichi al fatto che gli spazi verdi di una città, indispensabili come campi da giuoco e polmoni d’aria pulita, abbiano anche aiuole fiorite, o che le finestre delle case siano adorne di vasi di fiori. […] Esigiamo che l’uomo civile onori la bellezza ovunque la incontri nella natura, e che la traduca in oggetti per quanto ne è capace il lavoro delle sue mani. […] Esigiamo che l’uomo civile onori la bellezza ovunque la incontri nella natura, e che la traduca in oggetti per quanto ne è capace il lavoro delle sue mani. […] Vogliamo vedere i segni della pulizia e dell’ordine. […] Ogni genere di sporcizia ci sembra incompatibile con la civiltà […]. Bellezza, pulizia e ordine occupano chiaramente un posto particolare fra le richieste della civiltà.” (1929, pp. 583-584)

Si era potuto apprezzare quanto Freud tenesse alla bellezza già nelle prime battute del saggio “Caducità” (1915) quando, raccontando di una passeggiata in compagnia di un amico e di un giovane e famoso poeta[3]in una contrada estiva in piena fioritura” (p. 173), aveva scritto con un certo lirismo: “Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno.” (Ibid., p. 174)

Pur avendo scritto queste note in un contesto storico ed ecologico differente da quello attuale, Freud articola uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza legata ai cambiamenti industriali, alle loro conseguenze e alle relative paure: il lutto anticipatorio e il rischio del ritiro degli affetti dagli oggetti avvertiti come danneggiati o danneggiabili, cioè un aspetto che può mostrarsi espressivamente come apatia. Il saggio suggerisce come l’ambiente e gli oggetti affettivamente investiti possono essere esperiti in un clima di perdita e di paura incombente della fine. Il lutto esperito dal poeta, testimone passivo di un’eventuale futura distruzione, non è elaborato; la bellezza è anticipatamente perduta e a questa condizione Freud si ribella, concludendo in questi termini: “Una volta superato il lutto, si scoprirà che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà. Torneremo a ricostruire tutto ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e più duraturo di prima” (Ibid., p. 176).

Commenta Renee Lertzman (2013, p. 126): “Nella posizione del poeta […] riconosciamo quella che appare o viene etichettata come apatia o compiacenza. Mentre è impossibile conoscere esattamente che cosa sta avvenendo in coloro che si ritirano dal mondo per le ragioni più varie, noi, però, possiamo restare aperti alla possibilità di una qualche ribellione psichica, quale quella descritta da Freud, se vogliamo cercare di capire quello che si manifesta come apatia o mancanza di impegno.

Anche quando Freud usa accenti lirici ed entusiastici, però, si tratta sempre e comunque di una natura da dominare, come si evince anche dal ruolo che assegna alla pulsione di morte: “Temperata e imbrigliata, in un certo qual modo inibita nella meta, la pulsione distruttiva diretta verso gli oggetti procura all’Io il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura.” (1929, p. 608)

Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte; viene descritta una natura da amare e rispettare, ma soprattutto da sottomettere alle esigenze di dominio dell’uomo civile. Il rapporto con la natura in Freud sembra quindi essere l’altra faccia del progresso tecnico, il suo complemento, seppure in un rapporto conflittuale, in cui non vi è mai piena integrazione delle polarità e delle contraddizioni: dolore e gioia, gioco e serietà, bisogni individuali e bisogni sociali (Schinaia, 2020).

È indubbio che, nonostante le felici intuizioni, il testo freudiano risenta fortemente dell’ideologia del progresso lineare e illimitato dei primi del Novecento, da cui discende una netta prevalenza dei valori della sopravvivenza e del lavoro, e quindi della tecnica, che vengono soltanto modulati, attutiti, temperati dalla necessaria presenza del verde e da un’attenzione alla natura dal sapore risarcitorio, più che autenticamente riparativo. Ovviamente Freud è vissuto in una fase storica in cui l’espansione del progresso tecnico veniva esaltata, per cui non poteva più di tanto metterci in guardia dall’eccesso di tecnica che può distruggere la natura, seppure in “Avvenire di un’illusione” (1927, p. 436) scrive: “Le creazioni umane sono facili da distruggere e la scienza e la tecnica, che le hanno edificate, possono anche venir usate per il loro annientamento.

Nonostante le contraddizioni, gli spunti per una moderna riflessione in tema di responsabilità ambientale in Freud sono notevoli, tanto che il filosofo Nicola Emery (2011, p. 20) li enuncia, commentandoli positivamente: “Sublimazione, prudenza, condivisione, rispetto, cura, conduzione, responsabilità: le virtù con le quali il pensiero occidentale ha cercato di accompagnare l’esercizio delle tecniche, esprimono in fondo tutte, su piani diversi, la necessità di una rinuncia pulsionale per orientare ‘sostenibilmente’ il fare tecnico.

Psicoanalisi e ambiente dopo Freud

Bisogna attendere gli anni sessanta perché cominci una più accurata riflessione psicoanalitica sul rapporto uomo-ambiente.

È Harold Searles (1960), negli anni in cui incombe la minaccia atomica e la paura della distruzione del pianeta, a dare senso e valore all’ambiente “non umano”, all’habitat quotidiano, amplificando le intuizioni di Winnicott a proposito della fusione del bambino con la madre (ambiente umano) e del “set-up uomo ambiente” e sottolineando come le cose del mondo abbiano una risonanza psichica. Il mondo vegetale, gli animali, le strutture architettoniche degli ambienti domestici ed extradomestici, le suppellettili, l’arredo, giocano un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo e del milieu sociale per la formazione psichica, soprattutto nell’infanzia.

Searles scrive il libro L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia all’età di sessantacinque anni; non l’avrebbe potuto scrivere – egli afferma – a quarant’anni, quando era ancora impegnato nella lotta di differenziazione dal “non umano”. Lo psicoanalista americano descrive all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, un senso di colleganza con l’ambiente non umano, di intima affettività tra i processi della vita umana e quelli ambientali, che deve essere riconosciuto e rispettato per il proprio benessere psicologico, per alleviare la sua solitudine esistenziale nell’universo.

I benefici possono essere suddivisi in quattro categorie:

1) alleviamento di diversi stati emotivi penosi e carichi di angoscia;

2) contributo all’autorealizzazione;

3) rafforzamento del senso di realtà;

4) stimolo al riconoscimento e all’accettazione dei propri simili (Searles, 1960, p. 104).

[Il senso di colleganza] attenua il timore della morte e aiuta l’uomo a trovare un senso di pace, un senso di stabilità, di continuità e di sicurezza. Infine […] può agire come antidoto ai sentimenti di nullità e insignificanza” (Ibid., p. 105).

Questo senso di colleganza dell’umano con il non umano comincia ad essere distorto, interrotto, in concomitanza con il deterioramento ecologico, che provoca a angosce e difese, a cui Searles nel 1972 dedica pagine che sono ancora oggi di un’attualità sconvolgente.

Searles (1972) suggerisce che la mancanza di una riflessione e di una letteratura psicoanalitica sulla crisi ambientale potrebbe essere determinata da fattori distruttivi di origine inconscia. In più, teme (polemicamente) che i colleghi analisti siano così disinteressati al problema che potrebbero reagire all’interesse ecologico, diagnosticando per chi se ne occupasse, “una depressione psicotica, oppure una schizofrenia paranoide.” (p. 362) Quindi afferma che l’apatia generalizzata che si può osservare nel genere umano in relazione alla crisi ecologica si basi largamente su difese dell’io inconsce contro angosce di vario genere e che si manifestano a vari livelli in relazione allo sviluppo dell’io degli individui. Il nostro rapporto con l’ambiente è intriso di ambivalenza e distruttività, e le difese dell’io, oscillando tra dipendenza e controllo, sottomissione e sfruttamento, invidia e gratitudine, specificamente hanno a che fare:

  1. con i livelli fallici ed edipici dello sviluppo. Una delle ragioni più importanti nel determinare l’apatia dei padri nei confronti dei rischi di estinzione dei figli a causa dell’inquinamento risiede nel fatto che le attuali condizioni ambientali promettono di estinguere un rivale edipico temuto, invidiato, odiato e mai del tutto sconfitto. “Il nostro odio inconscio per le generazioni successive […], la nostra determinazione a distruggere il loro diritto alla vita, vendicandoci delle deprivazioni che, in una delle fasi del nostro sviluppo, abbiamo dovuto sopportare per mano dei nostri genitori, include il conflitto edipico, ma va ben oltre questo” (, p. 363).
  2. con le prime fasi coincidenti in termini kleiniani con la posizione depressiva. L’inquinamento atmosferico tende a proteggerci dal prendere atto della nostra profonda depressione, essendo al servizio non solo della negazione del futuro della nostra discendenza che inconsciamente odiamo e invidiamo, ma anche dell’oscuramento di un passato a cui inconsciamente opponiamo resistenza. Equipariamo il mondo idealizzato della nostra infanzia irrimediabilmente perduta con un ambiente incontaminato. Tendiamo erroneamente a dare per scontato che non si può far nulla per l’attuale inquinamento a causa della profonda mancanza di speranza di recuperare il nostro mondo infantile, da noi retrospettivamente idealizzato e, quindi, negato nei suoi aspetti deprivati e dolorosi. L’inquinamento è al servizio del mantenimento dell’illusione che un’infanzia incontaminata e ideale sia ancora là, ancora raggiungibile, per cui basta scuotersi e liberarsi di tutto quello che contamina e oscura la sua purezza. In questo senso gli agenti inquinanti rappresentano resti del passato a cui siamo aggrappati, distorsioni transferali che permeano il nostro ambiente attuale, proteggendoci dalla velenosità delle perdite subite ed evitandoci di viverle nella realtà attuale. Possiamo sentire non di avere perso il nostro mondo infantile, ma che onnipotentemente siamo stati noi a inquinarlo e che continuiamo a inquinarlo” ( p. 365).
  3. con la fase ancora precedente, coincidente con la posizione paranoide. Possiamo far fronte a un mondo così dominato dalla tecnologia, così alieno, così complesso, così grandioso, così opprimente, soltanto regredendo fino a uno stato di non differenziazione da esso. “Reagiamo a un mondo pervasivamente e progressivamente inquinato in cui viviamo, […] avvertendolo come un nostro nemico permanente. Questa condizione tende a paralizzarci in un’inattività terrorizzata, tanto più che in questa modalità regressiva dell’esperienza non siamo del tutto differenziati dall’ambiente.” () A questo livello di funzionamento primitivo dell’io non vi è netta differenziazione tra la madre buona e la madre cattiva. La natura è stata spesso una madre cattiva per l’uomo ed è stata resa ospitabile attraverso la tecnologia, la nostra madre buona, che, però, ora viene vissuta come tossica e, non potendo tornare la natura allo stadio iniziale, siamo perduti.

Bisognerà attendere gli anni duemila per una ripresa delle riflessioni psicoanalitiche sul rapporto uomo-ambiente, che, come vedremo, partono proprio dalle considerazioni di Searles e dal suo utilizzo delle teorizzazioni di Freud, Klein e Winnicott.

Laura Ambrosiano (2017) afferma che l’embricazione dentro-fuori da subito costituisce l’apparato psichico e il suo funzionamento come contaminato (come avere lo straniero dentro), limitando molto la nostra comune illusione della soggettivazione. In luogo dell’opposizione mondo interno-mondo esterno, dentro-fuori, possiamo immaginare un fuori-dentro e dentro-fuori che comunque sottolinea i limiti della soggettivazione, a favore della concezione di una mente estesa.

Lo psicoanalista indiano Sudhir Kakar (2017) ricorda come nella cultura indiana, a differenza di quella occidentale, il corpo umano è intimamente connesso con la natura e il cosmo, per cui vi è un incessante interscambio ecosistemico con l’ambiente. Scrive (p. 9): “[Nella cultura occidentale] gli aspetti naturali del contesto – la qualità dell’aria, la quantità di sole, la presenza di uccelli o animali, delle piante e degli alberi – sono concepiti aprioristicamente, quando sono presi in considerazione, come irrilevanti per lo sviluppo intellettuale ed emotivo.

La difficoltà a mettere in atto questo lavoro di aggiustamento continuo e senza fine si costituisce come uno degli ostacoli inconsci a prendersi cura del nostro pianeta. Inconsciamente identificandoci con quella che percepiamo come l’onnipotente e immortale tecnologia, non vogliamo vedere il lato oscuro del nostro benessere sociale e dello stile di vita occidentale; ci proteggiamo da sentimenti intollerabili di insignificanza, deprivazione, perdita, paura della morte e dal senso di colpa che risulterebbe dal riconoscere la nostra implicita complicità o convivenza con lo sfruttamento cieco delle risorse naturali, la sottovalutazione dei costi e delle ricadute distruttive che ne conseguono, reagendo con una severa e pervasiva apatia. D’altronde proprio Freud in “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico” (1911) parla di Sua Maestà il Bambino, che da per garantita e senza limiti, senza possibilità di estinzione, la disponibilità materna a rispondere ai suoi bisogni urgenti e Melanie Klein (1935) descrive un bambino, la cui fantasia inconscia consiste nell’inesauribilità del seno materno, che vuole totalmente possedere, come l’intero corpo di lei.

Irma Brenman Pick (2013) attribuisce all’uomo le stesse fantasie di possesso nei riguardi di Madre Natura e il volere contemporaneamente i vantaggi e i comforts derivanti dall’industrializzazione e un mondo idilliacamente intatto, senza alcuna rinuncia. Un po’ come alcuni pazienti che in analisi dicono: “Dio, rendimi virtuoso, ma non ora”, avendo difficoltà a rinunciare allo status quo.

John Keene (2013), facendo riferimento a Donald Winnicott (1965), afferma che il nostro pianeta viene vissuto come un’illimitata “madre–gabinetto”, una grande discarica capace di assorbire all’infinito i nostri prodotti tossici, come è avvenuto per lo scarico dei liquami nel mare e scrive: “I bisogni di dipendenza del bambino sono dolorosi e possono essere odiati; ciò può condurre a desideri di punizione, controllo, svuotamento o distruzione della madre che viene avvertita come la principale sorgente della frustrazione infantile […]. In più il piacere della distruzione dà una soddisfazione più immediata della dolorosa e faticosa attitudine alla creazione e alla riparazione” (Keene, 2013, p. 147).

Sally Weintrobe (2013a, pp. 7-8) suggerisce che, quando ci confrontiamo con il cambiamento climatico, entrano in gioco tre differenti forme di rifiuto: La negazione, il diniego, e il negazionismo. Ognuna di queste forme implica in modo radicale effetti differenti:

La negazione comporta l’affermazione che qualcosa “non c’è veramente”, quando invece è vero che c’è e ci aiuta difenderci dall’angoscia e dalla perdita. È una modalità di rifiuto che si costituisce come il primo stadio transitorio del lutto nell’accettazione di una realtà dolorosa, difficile da sopportare. L’individuo dice no alla realtà, ma non la distorce. L’individuo può cominciare a dire “non è vero”, quindi, seppure con stizza, accetta che sia vero, per poi finalmente cominciare a sentire pena e accettazione.

Il diniego presenta un problema più serio, in quanto contemporaneamente sappiamo e non sappiamo. Da un lato la realtà è conosciuta e accettata; dall’altro, con una sorta di alchimia psicologica, il suo significato è fortemente minimizzato. Un occhio aperto e un occhio chiuso. Nel tempo questa modalità difensiva risulta particolarmente pericolosa e intrattabile perché le nostre difese tendono a diventare sempre più rigide e radicate in relazione al montare delle angosce. Poniamo noi stessi in una realtà alternativa per tenere a bada le crescenti emozioni negative e inconsciamente attacchiamo perversamente il significato razionale, proponendo una sorta di anti-significato. Il diniego lavora mediante una costante sorveglianza sui sentimenti di disturbo provocati dalla violenza e dalla relativa sofferenza in relazione ai difficili momenti storici che attraversiamo. Questo monitoraggio non ha la funzione di aiutarci ad affrontare il turbamento che proviamo, ma serve ad aiutarci a trovare modalità psicologiche correttive per disfarcene.

Il negazionismo è facilmente riconoscibile e consiste nella diffusione intenzionale della disinformazione per interessi politici, ideologici o commerciali. È una modalità difensiva organizzata e pianificata in termini grandemente cinici e la ritroviamo nelle campagne politiche o nelle schede esplicative che promuovono un prodotto, riducendo il valore o mettendo tout court in discussione le stesse scoperte scientifiche in tema di cambiamento climatico. Alcuni esempi:

1)Nel 2017 l’amministrazione Trump degli Stati Uniti ha messo in discussione l’approvazione del piano di Parigi, attraverso la cancellazione del Clean Power Plan del suo predecessore Barack Obama, che prevedeva restrizioni sulle emissioni industriali, la riduzione delle centrali a carbone e attraverso il rifiuto di firmare la dichiarazione congiunta sul clima al G7 dell’energia di Roma.

2)Nonostante uno studio commissionato dal governo australiano avesse pronosticato che il riscaldamento globale avrebbe determinato nel Paese a cominciare più o meno dal 2020 una stagione di gravissimi incendi, favoriti dalla siccità e dalle tempeste, il governo anti-ambientalista e i media anti-ambientalisti hanno diffuso false informazioni, addossando le responsabilità degli incendi ai piromani e alle associazioni ambientaliste che impedirebbero ai vigili del fuoco di abbattere alcuni alberi. Se è vero che nelle prime fasi di ogni indagine scientifica lo scetticismo gioca un ruolo costruttivo nella ricerca di prove solide, è altrettanto vero che, una volta che i risultati sono scientificamente evidenti, la presa di posizione dello scettico diventa una testarda ostinazione nell’affermazione di quanto è falso e irragionevole, cioè diventa sempre più perversa. Lo scetticismo perversamente porta prima alla semplificazione dei problemi, quindi a un relativismo riduzionistico, per terminare con il vero e proprio negazionismo climatico, che impudentemente ribalta la verità e trasforma le fondate rilevazioni scientifiche in supposizioni non provate, in fantasiose congetture Resta necessario evitare di mettere insieme le difese dell’individuo comunque esse si manifestino, che fanno parte della natura umana e sono il prodotto di migliaia di anni di storia della civiltà e determinano una responsabilità limitata e circoscritta, e il negazionismo, che potrebbe definirsi come la modalità ideologicamente perversa di utilizzare difese quali la negazione e il diniego. Esso è organizzato dalle lobbies che propugnano attivamente la colonizzazione della biosfera e propagandano il consumismo, e che è perfettamente spiegabile con i meri interessi economici (Weintrobe, 2019).

Joseph Dodds (2011), muovendosi tra diversi paradigmi psicoanalitici e le teorizzazioni di Felix Guattari, che confuta l’opposizione dualistica tra sistema umano (culturale) e sistema non umano (naturale), illustra come una serie di imprevedibili sistemi non lineari interconnessi e altamente complessi entrino in gioco nei fenomeni di cambiamento climatico, stimolando le paure, le angosce dei gruppi, delle comunità a livello nazionale e globale, e determinando quelle interconnessioni tra l’ecologia locale e quella interplanetaria che nessun campo disciplinare da solo può comprendere. I meccanismi di difesa, le tattiche intrapsichiche prese in esame per tenere a bada l’angoscia travolgente in relazione al disastro ecologico, che sono di impedimento alla costituzione di risposte costruttive e alla mobilizzazione di energie riparative, sono la scissione, l’intellettualizzazione, la rimozione, il dislocamento, la repressione, il diniego. Joseph Dodds si chiede se la dinamica centrale inerente la rimozione sia costituita da una crescente angoscia come risposta all’enormità del problema, dalla cui insostenibilità bisogna difendersi oppure che l’angoscia si incrementi in relazione a un problema così enormemente astratto da restare incomprensibile per la scala emotiva umana e conclude che probabilmente i due fattori operano simultaneamente. In particolare si rifà alle fasi dello sviluppo di Melanie Klein, includendo la fantasia di un seno-Terra infinitamente disponibile, la risposta schizo-paranoide al necessario svezzamento e la necessità di andare verso una posizione depressiva, con il relativo desiderio di riparazione nei confronti della perdita, del dolore e delle delusioni.

Alan Bellamy (2019) evidenzia un’ulteriore difesa nei confronti della presa di coscienza della gravità dei cambiamenti climatici, rendendo attuale il concetto di “identificazione con l’aggressore” di Sándor Ferenczi, secondo cui “con l’introiezione dell’aggressore, quest’ultimo scompare come realtà esterna” (1932, p. 421). Secondo Bellamy, il concetto di identificazione con l’aggressore non riguarda solo i casi di abuso sessuale infantile, ma va esteso alle situazioni in cui si verifica uno squilibrio traumatico tra l’individuo e il suo ambiente, quando cioè la paura diventa intollerabile facendolo sentire in pericolo senza via di scampo, per cui prende piede il vissuto di mancanza di protezione da parte del mondo circostante. La nostra risposta in questi casi, dice Bellamy, va ben oltre la dissociazione e si costituisce come identificazione con quel mondo che ci circonda, proprio con ciò che ci spaventa, per provare a proteggerci, riprendendo quanto Searles (1972, p. 180) scriveva: “È più desiderabile dedicarsi alle proprie segrete fantasie di distruttività onnipotente, identificandosi con le forze che minacciano il mondo.

Un’ulteriore modalità difensiva consiste nella razionalizzazione, nell’intellettualizzazione, per cui a una corretta comprensione razionale della drammaticità della situazione ambientale, non corrisponde una comprensione emotiva altrettanto significativa. “Questa distanza tra comprensione e sensazione – Scrive Jonathan Safran Foer (2019, p. 19) – può rendere molto difficile agire anche per chi è attento e politicamente impegnato – per chi vuole agire. […] Riflettere sulla complessità e sull’ampiezza delle minacce che abbiamo di fronte, è spossante.” Espressioni come “riscaldamento globale” o “sostenibilità ambientale” per esempio, siamo ormai abituati a farcele scivolare addosso, mentre reagiamo a parole molto meno importanti. Se riuscissimo a cogliere tutte le implicazioni dell’espressione “riscaldamento globale”, dovremmo spaventarci come all’insorgere di una minaccia in una fiaba, scrive Magnason in Il tempo e l’acqua (2019). Le persone possono dichiarare angoscia per la crisi climatica, ma devono fare i conti con il fastidio fino alla non accettazione del conseguente cambiamento nei comportamenti (per esempio usare i trasporti pubblici, andare in bicicletta sotto la pioggia, investire denaro nell’isolamento delle abitazioni). Questi modi di difenderci per tenere a bada l’angoscia travolgente in relazione al disastro ecologico, sono di impedimento alla costituzione di risposte costruttive e generative e alla mobilizzazione di energie riparative e trasformative, paralizzando le donne e gli uomini quando devono tradurre le loro preoccupazioni in azione e sostanziano l’illusorio vissuto che il nostro pianeta sia una grande discarica capace di assorbire all’infinito i nostri prodotti tossici, come avviene per lo scarico dei liquami nel mare. Un altro degli aspetti fondamentali dell’esperienza legata ai cambiamenti industriali, alle loro conseguenze e alle relative paure è il lutto anticipatorio, il vivere da subito in termini pessimistici e catastrofici quanto ancora non è avvenuto, e il rischio del ritiro degli affetti dagli oggetti avvertiti come danneggiati o danneggiabili, come scrive Freud in “Caducità”, cioè la condizione psichica che può mostrarsi espressivamente come apatia, che può essere etichettata come compiacenza e/o indifferenza e che rischia di non farci restare aperti a una ribellione psichica e di sottometterci a un “tanto non c’è niente da fare”. Sarebbe invece necessario elaborare i sentimenti angosciosi di perdita e di finitezza, per rapportarci autenticamente ad un mondo dinamico e incerto, che dia spazio alla debolezza, alla fragilità.

A proposito delle difese di gruppo

L’indifferenza, la sbadataggine, la pigrizia, la banalizzazione, la ristrettezza mentale e la svalutazione scientifica dei rischi ecologici, fino alla sottovalutazione degli effetti catastrofici e l’apatia nei riguardi della rovinosa involuzione del rapporto uomo-natura, possono essere difese gruppali da un’angoscia intollerabile, incrementata anche dalle informazioni prodotte dai social network, che non prevedono una previa valutazione e gerarchizzazione delle notizie con il risultato di un’opinione pubblica eccitata superficialmente più che informata, con il prevalere dell’emotività spaventata dagli allarmismi sul primato del ragionamento e della riflessione. Ne deriva che si rende necessario trovare nemici più visibili, che coinvolgono meno le proprie difficoltà a cambiare stile di vita, come per esempio la manipolazione, il complotto, l’inganno di centri di potere occulti, l’invasione dei migranti, il terrorismo[4] o altri uomini, altre nazioni lontane come la Cina, l’India con il loro sfrenato sviluppo economico. Ce la caviamo meglio con paure immediate, chiare, visibili, annusabili, ascoltabili, con una causalità lineare, cioè determinate da un nemico facilmente identificabile e con conseguenze dirette personali ovvie, mentre tendiamo a mettere lontano dal cuore quello che è lontano dagli occhi, se si tratta di qualcosa che procura disagio. Gli oggetti molto lontani possono essere esperiti come se fossero nelle ombre, in un qualche posto dimenticato, oppure localizzati in una terra esistente solo in un futuro tanto distante quanto impensabile. Lo scopo inconscio di questa operazione psichica consiste nel creare una distanza emotiva da quelle cose del mondo che maltrattiamo e a causa delle quali ci sentiamo colpevoli. Ci sentiamo costretti a restringere le nostre menti, a mettere in atto un vero e proprio sistema di anti-conoscenza, a viverci come spettatori amorfi senza alcuna responsabilità, piuttosto che come attori intrinsecamente corresponsabili, perché riesce arduo accettare la compartecipazione a un crimine tanto enorme. Un altro aspetto da prendere in considerazione è che l’avveramento di grandi catastrofi e il conseguente angoscioso vissuto di rovina – di volta in volta le guerre, la catastrofe nucleare, oggi gli tsunami, le alluvioni, le frane, le valanghe, le epidemie – molto spesso si costituiscono come la cornice scenografica in cui trovano rappresentazione onirica vissuti di precarietà psichica, di azzeramento di progetti esistenziali, di depressione e angoscia di morte, di paura del futuro, di interruzione di relazioni affettive significative, di lutti e perdite irrisarcibili.

Inoltre, bisogna aggiungere uno specifico rischio di induzione da parte delle impressionanti immagini dei disastri ambientali diffuse a getto continuo dai media sulla costituzione dello scenario onirico, che sicuramente ha un’origine personale e individuale, ma che è al contempo inducibile. Le successive fasi di eventi catastrofici, cioè, si possono porre come uno strumento di visualizzazione degli aspetti più oscuri e meno integrati della personalità del singolo. Un’immagine esterna, un ‘paesaggio disastroso’ proposto a livello iconico, può talvolta assumere una funzione organizzativa, fornire rappresentabilità specifica a disegni interni disorganizzati in cerca di un’aggregazione rappresentativa. Non potete immaginare che importanza abbia assunto in termini iconici, scenografici, la caduta del ponte Morandi a Genova per rappresentare nei sogni di molte persone le proprie angosce, i propri vissuti traumatici.

Mi verrebbe da dire con Bion che noi umani siamo a uno stadio molto avanzato per essere in grado di cogliere l’ampiezza dei nostri problemi, ma di non esserlo tanto da sapere come risolverli. Per esempio, tra tutte le creature viventi, gli esseri umani sono i massimi produttori di rifiuti, innocenti vittime di usi nobili o di abusi ignobili. Tutto sembra convergere verso lo stato di rifiuto, ed effettivamente ne siamo circondati: anche nello spazio in orbita attorno al pianeta Terra vagano rottami di vecchi satelliti e altri ordigni. Si fa sempre più chiaro che il modo in cui scartiamo influisce profondamente su di noi – quel che sentiamo, la nostra salute e il benessere quotidiano, la nostra stessa sopravvivenza, ne sono messi in discussione. Non possiamo più ignorare i nostri rifiuti, mandarli in paesi del Terzo Mondo, o seppellirli in luoghi profondi e remoti, perché ritorneranno a tormentarci. La gestione dei rifiuti, specialmente di quelli tossici, ci interroga su alcune caratteristiche specifiche di una distruttività ripetitiva e marcata da un eccesso irreversibile. Pensiamo ad esempio ai casi di creazione di discariche abusive dietro casa, con l’avvelenamento dell’ambiente abitato dai criminali stessi e dalle loro famiglie, come denunciato da Roberto Saviano in Gomorra (2006) a proposito della camorra, che gestisce e smaltisce illegalmente i rifiuti speciali tossici provenienti da tutto il territorio nazionale, interrandoli in discariche abusive, ma soprattutto bruciandoli, con grave danno per l’agricoltura, l’ambiente e la salute dei residenti, per i quali è maggiore la mortalità e l’insorgenza di gravi malattie, quali i tumori al seno, l’asma, la leucemia e le malformazioni congenite. Si tratta di delitti contro la madre terra, con una distruzione parallela di ambiente esterno e interno. Uno stupro della madre terra perpetrato in nome dell’avidità e dell’ingordigia, tanto mafiosa quanto ignorante, come quello che è avvenuto nella terra dei fuochi dove quello che è stato smaltito dolosamente con modalità clandestine, riemerge in termini di degrado e malattie proprio attraverso i roghi dei rifiuti e i loro rilasci tossici. Purtroppo sempre più l’avidità ha cominciato ad essere un valore positivo. Dovremmo avere quello che vogliamo e dovremmo averlo adesso, come riempitivo di un sentimento di vuoto interno, che non è riempito dall’amore, dalla comprensione e dallo sviluppo personale. Le nostre identità e il nostro status sono strettamente legati al nostro stile di vita. Nelle attuali società consumistiche siamo attivamente incoraggiati ad esprimere il nostro senso di identità attraverso il possesso materiale, tralasciando tutto quanto possa mettere in discussione il nostro sentimento di identità. Eppure sappiamo che, portando avanti un insostenibile stile di vita consumistico, stiamo minacciando l’identità che proviene da quella parte di noi stessi, di cui da un lato non siamo pienamente consapevoli, ma che da un altro lato tendiamo a proteggere con le unghie e con i denti.

Bisogna però anche aggiungere che negli ultimi tempi cominciano ad esserci esperienze virtuose di recupero paesaggistico di aree precedentemente deputate alla discarica di rifiuti. Ne è un esempio la discarica di Vall d’en Joan. La Vall d’en Joan si trova all’interno del Parco naturale del Garraf, Nel 1974 si cominciò a utilizzarla come discarica e da allora è stata la destinazione della maggior parte dei rifiuti di Barcellona e della sua area metropolitana. L’area, grazie a un complesso intervento multidisciplinare cominciato nel 2002, è stata trasformata in un grande parco pubblico con terrazze coltivate, zone alberate e campi agricoli ed è diventata luogo di percorsi naturalistici.

È necessario sfuggire anche alla reazione opposta, che comprende l’esaltazione acritica del mondo naturale in cui, parafrasando il Candido di Voltaire, tutto andrebbe per il meglio nel migliore dei mondi possibili, la drammatizzazione ossessiva delle pratiche di difesa ambientale, l’uso prolungato di toni allarmistici e di interpretazioni apocalittiche, l’opposizione al progresso scientifico. Queste posizioni possono diventare il terreno di coltura per un’adesione conformisticamente fanatica all’ideologia ecologista in una sorta di “allucinazione” di gruppo. Il fanatismo va inteso come rifugio rispetto alla paura di sentire, di pensare, di confrontarsi, rendendo l’angoscia rigida e estrema, l’anticamera della disperazione e del panico. Anche questo è un meccanismo di difesa che, enfatizzando idealmente il rapporto dell’uomo con la natura, nei fatti lo snatura, rendendolo retorico e sostanzialmente non fruibile. Sostenere con decisione e da più punti di vista l’urgente necessità dell’equilibrio ambientale non vuole dire sconfinare automaticamente nell’utopia anti-universalistica della decrescita felice, né propugnare un nostalgico e utopistico ritorno alla semplicità rurale e artigiana, alla fantasia di una Terra che una volta era intatta e incontaminata. Tale ritorno si configura come un vero e proprio mito contemporaneo che rappresenta una Natura originariamente pura e con il passare del tempo deturpata dal progresso. Una Natura, che si trasforma in una erinni vendicatrice delle ferite sofferte a causa del progresso è la fantasia alimentata dai nostri sensi di colpa.

Bisogna porre molta attenzione a quello che potrebbe essere definito come il paradigma conservatore della nozione di natura e diffidare dell’integralismo naturalistico. L’interpretazione della natura e del naturale ha avuto, nel corso della storia, uno statuto ambivalente. Da un lato, per esempio, la concezione dei diritti naturali, poi diventati diritti umani, ha significato uguaglianza di condizione contro ogni pregiudizio etnico e razziale; dall’altro la nozione di natura è stata usata per legittimare il potere religioso, e anche politico, tramite la repressione di atti e pratiche che, di volta in volta, in fasi storiche differenti sono stati definiti “contro natura”.

Il rischio di queste posizioni è che riconoscimento del problema, a questi livelli, sia strettamente collegato alla disperata impossibilità di porvi rimedio. Alla maniacale speranza di riparare con facili soluzioni, a cui poi fa seguito la delusione e il collasso delle aspettative. Se tutto non avviene in termini rapidi, nei tempi desiderati e non differibili, non si risponde con la speranza matura e capace di prefigurare tempi adeguati, che rifugge dal tutto e subito infantile, ma con l’accettazione nichilistica del danno senza alcuna speranza di cambiamento, accompagnata da un’angoscia, che potrebbe essere definita ecoangoscia, in relazione al vissuto di ineluttabilità di una catastrofe ravvicinata. Una prima modalità di fare fronte in termini positivi all’ecoangoscia può essere il diventare fautori della conservazione dei beni comuni e della valorizzazione della bellezza in tutte le sue manifestazioni, costruendo una concreta transizione ecologica.

Di una bellezza autentica abbiamo bisogno e non di estetismi falsificanti, di maschere mendaci. In nome della bellezza dobbiamo riconoscere il valore del mondo vegetale, degli animali, delle strutture architettoniche degli ambienti domestici ed extradomestici, delle suppellettili, dell’arredo, che giocano un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo e del milieu sociale per la formazione psichica, soprattutto nell’infanzia (Searles, 1960). Esiste all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, un senso di parentela con l’ambiente non umano, di intima affettività tra i processi della vita umana e quelli ambientali, che deve essere riconosciuto e rispettato per il proprio benessere psicologico, per alleviare la sua solitudine esistenziale nell’universo. Si rende necessaria una capacità di convivenza tra alterità, accettando una coesistenza con l’altro senza sentirsi a rischio di annientamento. Anzi sarebbe meglio dire più che convivenza, coabitazione visto che ormai ogni discorso non può più prescindere dalla considerazione del nostro rapporto con l’ambiente. La nostra ‘umanità’ si presenta come una ‘costruzione’, qualcosa che, seppure dato fin dall’inizio come caratteristica peculiare di base, ha bisogno per svilupparsi dell’incontro con un ambiente che aiuti a specificarlo, a distinguerlo dal mondo naturale e anche da quello artificiale che, comunque, resteranno per sempre parte attiva del suo essere. La nozione di umanità, quindi, anzi l’esperienza stessa di appartenere all’umanità, prevede uno spazio esteso nel quale il soggetto si possa espandere in un movimento di assunzione delle alterità. Non implica necessariamente un assorbimento verso l’indistinzione che annulli le differenze, quanto piuttosto un lavoro continuo di aggiustamento per raggiungere un’espansione e un incremento (Preta, 2015).

Converrebbe, quindi, prendere atto degli sconvolgimenti che vanno dalle siccità e canicole diffuse e a ripetizione, con il conseguente innesco di conflitti tra allevatori e agricoltori che si contendono le sempre più scarse terre fertili e il relativo calo della produzione alimentare, all’abuso di fitofarmaci (quali pesticidi e stimolatori della crescita non sempre consentiti dalla legge) nei campi che, oltre a inquinare il nostro cibo, frutta, verdura e cereali, pur consentendone un’apparenza esteticamente appetibile, con uno spostamento dal “buono” al “bello”, dal piacere del corpo a quello degli occhi, uccidono le api e altri insetti impollinatori. Si pensi come prototipo alla mela avvelenata che la matrigna dà a Biancaneve e che ha una perfetta rappresentazione visiva nel film di animazione di Walt Disney del 1937 Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs). Il suo aspetto illusorio, accattivante e seducente, maschera l’accezione sostanzialmente negativa e i rischi connessi al suo valore simbolico. Il rispetto dell’ambiente, inteso sia in termini etici che estetici, è stato messo in rilievo con stile sobrio e chiaro anche da Jorge Bergoglio (2015), che ribadisce il diritto di tutti gli uomini alla bellezza, allontanandosi da quel pauperismo sofferente, ideologizzato ed estetizzato, che talvolta è stato presente negli scritti della Chiesa cattolica.

Insieme alla bellezza, vanno valorizzati il benessere psicofisico, e ancora il futuro dei nostri figli e nipoti, evitando che le modalità negatorie oggi ampiamente presenti dentro di noi, nella nostra generazione, possano depositarsi e riprodursi nello psichico delle generazioni future, riproducendo i gravi danni che infliggiamo all’ambiente, come un’ipoteca dell’antenato nei confronti della discendenza. Nella trasmissione tra le generazioni avviene un processo di identificazione che condensa una storia che in gran parte non appartiene alle generazioni future. Secondo un racconto talmudico (Ta’anit 23a), Honi Hameagell, il leggendario disegnatore di cerchi, camminando per la via, vide un uomo che piantava un carrubo. Honi gli chiese: “Quanto tempo deve passare perché un carrubo dia frutti?”. L’uomo rispose: “Settant’anni”. Allora Honi gli disse: “Sei certo di vivere per altri settant’anni?” Rispose l’altro: “Io ho trovato i carrubi nel mondo; come i miei padri li hanno piantati per me, così io pianto questo per i miei figli”. Il filosofo Hans Jonas, in un orizzonte di senso che non si conclude con la singola vita, sostiene, in base al principio di responsabilità, che i nostri successori debbano pretendere di trovare un mondo in condizioni almeno non peggiori di quelle che noi abbiamo trovato. Il suo imperativo ecologico è, come scrive il filosofo Hans Jonas:

Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra.

Credo che la metafora di Bateson dell’acrobata sul filo teso nel vuoto, che, per non cadere ha bisogno della massima libertà per spostarsi da una posizione di instabilità a un’altra, possa rappresentare bene la condizione emotiva ed esistenziale dell’uomo moderno, che come un equilibrista deve fare i conti con un sistema di stimoli e di difese così complesso.

L’appassionato appello di Ulisse ai suoi compagni perché proseguano il viaggio oltre le colonne d’Ercole, confine ultimo del mondo allora conosciuto: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza[5] andrebbe letto, a mio avviso, come sprone a un continuo lavoro di integrazione tra l’insopprimibile e coraggioso anelito alla conoscenza e al progresso insito nella natura umana e la considerazione depressivamente virtuosa ma altrettanto coraggiosa dei propri limiti, quella virtute spesso messa in secondo piano dai commentatori.

Conclusioni aperte

Dobbiamo coltivare il nostro orto.

Voltaire, Candido o dell’ottimismo, 1759, p. 125.

Oggi bisogna guardare con occhi limpidamente allarmati, meno ingenuamente ottimistici, al consumo illimitato delle risorse del pianeta, alla deforestazione, all’uso smodato dei combustibili fossili e ai conseguenti squilibri climatici, portatori di enormi disastri ambientali che vanno dalle alluvioni alle ondate di calore, dalle carenze idriche alla crescente desertificazione di grandi aree del pianeta, con conseguenti fenomeni di migrazione di massa, all’inquinamento atmosferico, e riequilibrare la relazione uomo-natura rispetto ai termini otto-novecenteschi.

Non c’è mai stata un’epoca in cui gli eventi atmosferici non pesassero sulle nostre esistenze, ma non hanno mai premuto su di noi in modo così inesorabile e diretto” (Ghosh, 2016, p. 71).

Compaiono malattie che migrano come viaggiatori senza pace da regioni originarie a nuovi luoghi nei quali si adattano e prendono piede come se fossero da sempre residenti nei recenti habitat che conquistano. Non è più necessario andare in Africa per prendersi la malaria, né, per introdurre una immagine meno drammatica, nuotare nell’oceano atlantico o indiano per incontrare coloratissimi pesci sconosciuti che attraversano l’acqua insieme alle nostrane sperdute spigole grigioline disorientate da questi incontri ravvicinati come potrebbe esserlo l’uomo davanti ad un’invasione di alieni (Preta, 2018).

Il rispetto della natura non è più un aspetto accessorio e risarcitorio inerente il prezzo da pagare al progresso, ma un aspetto centrale, parte integrante, costitutiva del progresso stesso. Si rende necessaria la sperimentazione di nuove forme di convivenza con la natura in termini non onnipotenti di possesso e conquista, senza cui il progresso non può darsi.

Il riconoscimento del legame inscindibile tra l’essere umano e l’ambiente che gli fornisce cibo, acqua, aria, dovrebbe portare ad un’assunzione di responsabilità per favorire condizioni di vivibilità globale, laddove un atteggiamento d’indifferenza, se non di avido e onnipotente sfruttamento delle risorse, ci mette ormai di fronte ad una profonda alterazione delle condizioni di vita sulla terra.

Bisogna prendere atto che la cultura dello sfruttamento illimitato delle risorse territoriali, così come sostenuto, seppure in termini relativi, anche da Freud, si è necessariamente profilata come cultura di fortissima crescita entropica, per cui con Jeremy Rifkin (1981) affermiamo che bisogna interpretare la situazione attuale come uno “spartiacque critico”, un punto di svolta della storia, quando “i vecchi strumenti della civiltà diventano inutilizzabili. L’entropia dell’ambiente diventa così elevata che si passa a un nuovo quadro di risorse energetiche, si creano nuove tecnologie e si configurano nuove istituzioni sociali, economiche e politiche” (Rifkin, 1981, p. 121).

È il silenzio il vero crimine”, scriveva profeticamente Hanna Segal (1987) a proposito della necessità di denunciare i rischi insiti nell’uso degli armamenti nucleari.

Searles (1972, p. 372) concludeva il suo saggio in questi termini: “Oggi viviamo in un tempo in cui dobbiamo necessariamente salvare il mondo reale, oppure finiremo per utilizzarlo come lo strumento per distruggerci tutti. Penso che il pericolo maggiore non consista più prevalentemente nella bomba a idrogeno, oppure nei lenti effetti letali prodotti dall’onnipresente tecnologia. Il maggior pericolo consiste nel fatto che il mondo è in uno stato tale da evocare le nostre angosce più primitive e al tempo stesso da offrire l’illusoria ‘promessa’, la promessa mortalmente attuale di mitigare queste angosce, di affrontarle, esternalizzando e reificando i conflitti più profondi che producono tali angosce. Nell’illusorio tentativo di diventare onnipotentemente liberi dagli umani conflitti, rischiamo di andare verso la nostra estinzione.

Credo che possiamo fare nostro il suo ammonimento a proposito dei rischi di catastrofe ambientale e della necessità di approfondire “insieme ai nostri fratelli negli altri campi della scienza” (Ibid.) lo studio delle specifiche, ma espressivamente cangianti, modalità storiche individuali e gruppali attraverso cui ci difendiamo.

La ricerca della verità necessita di un intenso lavoro emotivo, in quanto si tratta di far fronte al dubbio e all’incertezza che producono anche profonde angosce con il corteo di paura, sospetto, senso di persecuzione, che le esperienze nei gruppi tendono ad incrementare (Bion, 1961). T. S. Eliot (1943) scriveva: “Il genere umano non può sopportare troppa realtà.” E Bion (1978, p. 72) riprende lo stesso concetto: “La paura di conoscere la verità può essere così potente che delle dosi di verità risultano letali”.

Bion (1962) descrive tre modalità di far fronte alle angosce. Quando l’angoscia è completamente intollerabile, viene evacuata per identificazione proiettiva. Quando invece è maggiore il grado di tolleranza dell’angoscia, quando è possibile sia il pensiero che il test di realtà, la realtà è più tollerabile. Più frequentemente assistiamo a minimi livelli di tolleranza dell’angoscia, tenuta a bada più con una sorta di superiorità morale, seguita dalla ricerca di qualcuno a cui dare la colpa e da punire, che attraverso un processo di conoscenza. La caccia alle streghe ideologica è emotivamente più immediatamente remunerativa di una ricerca della verità dolorosa e che necessita della capacità di maneggiare incertezza e depressione. Allora vediamo il riemergere possente di antiche difese infantili, come la ripetizione: il rendere familiare, già noto il nuovo ci fa sentire più sicuri. Piuttosto che esaminare il nuovo con un nuovo pensiero, con nuovi strumenti, ci adagiamo nelle nostre ideologie, spesso polarizzate tra la catastrofe e la compiacenza, spesso con bruschi passaggi da una posizione all’altra, facendo proprie soluzioni semplici, nella completa mancanza di rispetto per la complessità, la parzialità e l’imperfezione delle soluzioni proponibili. In questo quadro è facile abbandonarsi a teorie della cospirazione, che si basano sulla scissione tra il buono e il cattivo.

Nonostante non si debba mai perdere di vista la possibilità reale che il pianeta diventi gradatamente sempre più inospitale a seguito di catastrofi ambientali, c’è margine per un cauto ottimismo. Nonostante l’orizzonte temporale per intraprendere un’azione efficace sia molto ristretto, per il bene dell’umanità, proviamo a fare i conti con gli impedimenti esterni, e per quello che riguarda noi psicoanalisti, quelli interni, per verificare come i mutamenti ambientali riorientino il pensiero sulle dinamiche psichiche, per mettere in atto tutti i tentativi possibili, senza abbatterci quando alcuni di essi falliranno. stabilità dovrebbe assicurare la base nutritiva, identitaria della nostra personalità e delle nostre collettività. Se per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui necessitavano, oggi sono i figli a doversi prendere cura della loro madre–Terra, prendendo atto della senescenza del nostro habitat, come del resto avviene quando i nostri genitori invecchiano.

Dobbiamo sapere ascoltare il grido d’aiuto sempre più forte che proviene dalla Natura e, quindi dare ascolto oggi alle esigenze delle persone, delle specie e degli ecosistemi, anche quelli più lontani, da cui la nostra esistenza dipende, e contemporaneamente tendere l’orecchio alle esigenze delle generazioni future e alla preservazione dei beni comuni, come l’atmosfera e gli oceani, la cui esistenza, domani, dipenderà dai nostri stili di vita. Credo che oggi, perché sia possibile mettere in atto un cambiamento positivo, sia necessario fare i conti con quelle angosce intrise di confusione, smarrimento, rabbia, risentimento rassegnato, dolore, paura; rilevare il diniego, che è l’altra faccia del sentimento di incapacità di modificare il corso degli eventi, ma anche affrontare il senso di colpa, i sentimenti di vergogna, la crisi dell’autostima, successivi al miope utilitarismo, frutto anche di criminali manipolazioni della verità, che ha indotto i lavoratori e gli abitanti della città a credere che si trattasse di una buona vita quella a loro offerta. Nonostante l’orizzonte temporale per intraprendere un’azione efficace sia molto ristretto, per il bene dell’umanità, prendiamo atto sia che siamo parte del problema, sia che siamo parte della soluzione. Bisogna rendersi conto che nell’epoca dell’Antropocene dobbiamo farci carico di una nuova presa di coscienza e di una nuova etica, evitando pericolose razionalizzazioni. Se è vero che non si può fare a meno di un approccio critico alla crisi suscitata da questi cambiamenti, è altrettanto vero che bisogna purgarlo delle sue tentazioni più pessimistiche.

Italo Calvino fa dire a Marco Polo a conclusione di Le città invisibili (1972, p. 164): “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Riconoscere che cosa non è inferno e dargli spazio” è un’esortazione alla riparazione delle ferite inferte al pianeta, alla continua manutenzione del territorio, all’impegnativo esercizio dell’aggiustamento e della sutura dei guasti prodotti dal tempo e dall’uomo, all’opposizione all’obsolescenza programmata delle merci. L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e la responsabilità è di tutti, nessuno escluso.

Ho provato a illustrare a proposito dei rischi di catastrofe ecologica determinata da uno sviluppo senza regole e senza memoria, e quindi “cannibalistico”, quanto sia necessario esplorare le dinamiche individuali e i conflitti sottostanti, nonché le dinamiche e gli stili di vita familiari che vengono appresi e fatti propri. Questa ricognizione è il punto di partenza per modificare le dinamiche e gli stili di vita individuali e familiari, la volatilità delle esigenze indotte dalla pubblicità, e per permettere, in una ritrovata dimensione di collaborazione fraterna, che ogni singola azione sostenibile sia creativa, rispettosamente riparativa e diventi parte di un rinnovamento globale attraverso una riassunzione di responsabilità individuale, in un orizzonte di senso che faccia riferimento rigorosamente al principio di realtà, ma opponendosi allo scetticismo di chi pensa che il singolo sia condannato all’impotenza, rinchiuso in una sorta di melanconia ambientale suicida. Pensiamo meglio in molti che da soli, anche se è il pensiero individuale, con la responsabilità che ne deriva, che deve confrontarsi e integrarsi con il pensiero del gruppo. Il papa Francesco ha recentemente affermato la certezza che “Nessuno si salva da solo” e che bisogna combattere “Il virus individualismo radicale” per vincere la “globalizzazione dell’indifferenza”.

L’unica risposta che si opponga all’impotenza e all’apatia, a cui ci costringe l’attuale catastrofe ambientale, consiste nel provare a trovare e sperimentare i rimedi possibili certamente come singoli individui, ma contemporaneamente più efficacemente insieme, come collettività umana. È necessario ricercare e aiutare a creare una nuova bioetica del futuro, accettando la complessità della realtà su scala globale, in cui il buono e il cattivo non sono facilmente individuabili e districabili, piuttosto che lasciarsi andare alla fantasia di ricreare la nostalgica certezza di un tempo e un luogo in cui i gruppi umani del passato vivevano in un’edenica naturale armonia con l’ambiente incontaminato, mettendo dentro di loro le nostre romantiche proiezioni idealizzanti.

Ciò che viene richiesto oggi è una nuova capacità creativa, come non si è realizzata nel passato, un’immaginazione creativa che metta al centro della vita umana altri valori rispetto all’espansione della produzione e del consumo. Questo non solo è necessario per evitare la definitiva distruzione dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale che affligge l’umanità contemporanea. Possiamo trarre conforto dalle parole di Freud in Al di là del principio di piacere (1920. P. 249) a proposito della lenta evoluzione della conoscenza scientifica, prese a prestito da un poeta: “Was man nicht erfliegen kann, muss man erhinken… Die Schrift sagt, es ist keine Sünde zu hinken” (Ciò che non si può raggiungere a volo, occorre raggiungerlo zoppicando…La Scrittura dice che zoppicare non è una colpa)[6].

La psicoanalisi non può dare risposte preconfezionate e consolatorie a problematiche così complesse e che implicano sguardi e decisioni di ordine politico, economico, sociale, ma può aiutarci a riflettere sulle domande che vengono poste dagli individui e dalle comunità, evitando scorciatoie semplicistiche e rassicuranti. Grazie alla psicoanalisi sappiamo che aspetti perversi e distruttivi della natura umana non sono rinvenibili soltanto nei criminali, negli uomini cattivi oppure nei negazionisti climatici più incalliti, ma sono presenti in ognuno di noi. La ricerca della verità, pertanto, necessita di un intenso lavoro non solo politico-sociale, ma anche emotivo, in quanto si tratta di far fronte al dubbio e all’incertezza, che producono anche profonde angosce con il corteo di paura, sospetto, senso di persecuzione, che le esperienze nei gruppi tendono ad incrementare. Si narra che Socrate, quando i suoi discepoli in un mercato volevano comprargli un paio di sandali nuovi al posto di quelli vecchi per esprimere la loro gratitudine per gli insegnamenti gratuiti del maestro, abbia rifiutato, dicendo che lui andava al mercato soltanto per verificare davanti all’esposizione delle merci di quante cose non sentisse il bisogno.

Consci dei nostri limiti, ma anche delle nostre potenzialità, noi psicoanalisti dovremmo assumere un chiaro impegno civile, una posizione politica netta e scevra da ogni fraintendimento nei confronti dell’urgente necessità di preservare e prenderci cura del mondo. Bion (1974, p. 110) si domanda: “Come può un essere umano con mentalità e personalità umana non essere interessato o non occuparsi del futuro?

Noi uomini, cittadini e analisti dovremmo ravvivare in noi stessi la capacità di pensare e sognare un futuro migliore e di impegnarci e contribuire alla valorizzazione del senso della misura e al mantenimento di una vita sufficientemente buona, in cui possa esserci spazio per l’amore e la creatività, contrastando il pensiero magico e illusorio e contemplando con integrità e sincerità anche gli aspetti spiacevoli dell’esistenza (Schinaia, 2019).

BIBLIOGRAFIA 

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Bellamy, A. (2019), Trauma, Fragmentation and Narrative: Sándor Ferenczi’s Relevance for Psychoanalytical Perspectives on our Response to Climate Change and Environmental Destruction, International Journal of Applied Psychoanalytic Studies: Climate Change and the Human Factor, 16, 2: 100-108. https://doi.org/10.1002/aps.1618

Bierce, A. (1911), Il dizionario del diavolo. Trad. it. Laura Bortoluzzi. Milano: Longanesi, 1985.

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Cosimo Schinaia è psichiatra e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e full member dell’International Psychoanalytical Association. È stato Direttore dell’Ospedale psichiatrico di Cogoleto (Ge), delle Strutture residenziali di Quarto (Ge) e del Dipartimento di Salute Mentale di Genova centro (ASL3 Genovese).

Tra i suoi libri ricordiamo:

Dal manicomio alla città, Laterza, Roma-Bari, 1997; Il cantiere delle idee, La Clessidra, Genova, 1998; Pedofilia pedofilie. La psicoanalisi e il mondo del pedofilo, Bollati Boringhieri, Torino 2001 (tradotto in inglese, spagnolo, portoghese, francese, polacco e tedesco); Il dentro e il fuori. Psicoanalisi e architettura, Il Melangolo, Genova 2014; Interno Esterno. Sguardi psicoanalitici su architettura e urbanistica, Alpes, Roma, 2016, (tradotto in spagnolo, in inglese e in traduzione in francese); Il presepio dei folli. Scene da un manicomio, Alpes, Roma, 2018 (tradotto in spagnolo); Pedofilia e psicoanalisi. Figure e percorsi di cura, Bollati Boringhieri, Torino, 2019 (tradotto in russo e in traduzione in spagnolo e greco); Schinaia, C. et al. (2020), Fear of Lockdown. Psychoanalysis. Pandemic Discontents and Climate Change. Lecce: Frenis Zero Press. L’inconscio e l’ambiente. Psicoanalisi e ecologia, Alpes, Roma, 2020 (tradotto in spagnolo, inglese,f rancese e in traduzione in russo).

E-mail: cosimo.schinaia@gmail.com; website: www.cosimoschinaia.it.; indirizzo: Via Bernardo Castello 8/18, 16121, Genova, Italia.

[1] Not everything that counts can be counted, and not everything that can be counted counts. La citazione appare per la prima volta nel testo di William Bruce Cameron del 1963, Informal Sociology: A Casual Introduction to Sociological Thinking (New York: Random House). Einstein avrebbe scritto tale citazione sulla lavagna del suo ufficio all’Institute for Advanced Studies di Princeton, New Jersey, USA.

[2] Freud riporta quasi testualmente una frase tratta da Hannibal di Christian Dietrich Grabbe (1801- 1836): “Ja, aus der Welt werden wir nicht fallen. Wir sind einmal darin” [Comunque non cadremo fuori dal mondo. Ci stiamo dentro una volta per tutte], per contestare la natura primaria del sentimento oceanico proposto da Romain Rolland.

[3] Probabilmente si tratta di Lou Andreas Salomé e Rainer Maria Rilke.

[4] Luigi Zoja (2017) ci ricorda che, se negli ultimi anni il terrorismo islamista non ha prodotto alcuna vittima in Italia, nel solo anno 2012, invece, il numero di morti per la cattiva qualità dell’aria ha superato le 83 mila unità.

[5] Verso 119 del canto XXVI dell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri.

[6] Citazione da Die Beiden Gulden, la versione di Friedrich Rückert di un makãmãt (sermone) di al-Hariri. Freud ha citato gli stessi versi nella lettera a Fliess del 20 ottobre 1895.

 

© Vecchiarelli Editore – Tratto da “Raccolta Articoli Scientifici 2021” – ISBN 978-88-8247-452-2 – Riproduzione riservata

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