La guerra invisibile

Un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti

Maurizio Pagliassotti

Einaudi, Torino 2023

Recensione di Silvia Golino

Ottobre 2021. Incontrai Maurizio Pagliassotti a Bolzano, nel primissimo tratto del suo cammino dal confine italo-francese al confine turco-iraniano. Una cena insieme alle colleghe di Caritas Bolzano (che ha sostenuto il progetto), in cui ci invitò a fare un pezzo di strada con lui. Tentate dall’impresa e dalla sincerità di quella proposta, desistemmo tutte e tre perché non eravamo pronte, non avevamo evidentemente la concentrazione che gli occhi di Maurizio rivelavano, né la sua forza. Nell’inverno tra il 2021 e il 2022 avrebbe percorso, da solo, in senso contrario le tappe dei migranti, mappa in mano e zaino in spalla dall’Italia alla Turchia, in buona parte a piedi, altrimenti su mezzi pubblici popolari a tratta breve. Suo obiettivo non era tanto farsi “migrante tra i migranti, trafficante tra i trafficanti, anarchico tra gli anarchici” – come un po’ troppo facilmente riporta il retro di copertina – bensì era quello di capire, vedere con i propri occhi, confrontarsi in prima persona con quel disumano[1] che sapeva di incontrare, la cui terribile misura però non poteva valutare. A finale del libro, infatti, l’autore affermerà: “Io non sono un migrante né ho mai pensato di poterne simulare la vita e le avventure, la mia storia non potrà mai avere la dignità delle loro” (p. 191).

Pagliassotti si era preparato ad affrontare non soltanto le numerose frontiere fisiche e politiche del lungo viaggio, ma era pronto soprattutto a confrontarsi con il limite. Si stava apprestando ad attraversare il fronte dell’odio, quel confine mutevole e scorrevole, non sempre e non ovunque coincidente con le frontiere geografiche[2], quel violento reale che sommerge l’umano svelandoci il suo stesso “fondamento disumano” (così Nathalie Zaltzman, cit. in De Micco 2022a, p. 667), che ci spaventa e che perciò evitiamo, che non riusciamo a rappresentare e dal quale preferiamo distogliere l’attenzione.

“Mi dicono che siano pagine cupe quelle di questo libro” (Pagliassotti 2023, p. XIII). E’ la frase di apertura, e il lettore, dopo aver scorso le duecento e rotte pagine, arriva ad analogo epilogo: “Non c’è lieto fine in questa storia” (ibid., p. 235). Pagliassotti mette subito in chiaro che nel suo lavoro non si troverà la pars construens, quel costrutto letterario che per “speranza” o per “senso di colpa” (ibid., p. XIII) dà forma a ogni racconto ‘come si deve’. Questo non è un racconto ‘come si deve’, non descrive cioè un pezzo di mondo ideale e a lieto fine. Qui ci troviamo lungo “il confine più violento d’Europa” (ibid., p. 191), dove si mettono in atto “prassi ben diverse dalle regole morali altissime che [l’Europa] ama raccontarsi” (ibid., p. 37). Allora quelli che noi, con leggero eufemismo, chiamiamo ‘i migranti’, più schiettamente vanno chiamati ‘i nostri nemici’, e così li appellerà l’autore nello svolgersi dei capitoli, nel susseguirsi di vicende e incontri estremamente crudi e crudeli. Siamo in un’invisibile e sproporzionata guerra contro “miserabili nemici” (ibid., p. 149), ‘facili da pensare’ perché su di essi proiettiamo ed evacuiamo il nostro ‘negativo’, pertanto difficili da incontrare nel confronto diretto, nella misurazione alla pari di ‘noi’ con ‘gli altri’. Perciò loro, i nemici, devono stare fuori, fisicamente distanti, quanto più possibile lontani dalla vista e dal cuore.“Esistono mondi nel nostro mondo che ignoriamo, perché abbiamo avuto il savoir faire di esternalizzare la violenza e la ferocia, come si fa con le produzioni inquinanti che non vogliamo nei paraggi delle nostre case”, afferma giustamente l’autore (ibid., p. XIV).

The facts are strong enough”. Così esordiva un’importante ricerca in tre volumi dell’economista e filosofo Amartya Kumar Sen: catastrofi umane e naturali colpivano senza tregua il suo Paese, l’India, e la sua gente, pertanto l’economia politica andava rivisitata con un taglio etico, sociale, ecologico[3].

Nel suo volume, Pagliassotti riesce a dare conto, qui e oggi, di altrettanti strong facts. Riporta fatti duri, ne parla per come sono perché, appunto, duri abbastanza. Non si avvale di ghirigori, né offre l’illusione che le cose possano andare meglio, dal momento che, scrive, i racconti degli eroi positivi di questo libro “sono terrificanti, sereni, sempre vagamente stupiti (…) senza sofferenza e senza felicità, al centro di uno spazio teso fatto di pensieri impenetrabili” (ibid., p. 18). Allora, come dare voce, come mettere bocca in vissuti tanto terribili, calati a picco oltre ogni limite del pensabile? Toccando il disumano, giungiamo alla nuda rivelazione delle nostre inquietudini e delle nostre angosce più profonde, e il libro diventa una sorta di psicoanalisi dell’Occidente perché arriva a pensarle, a rappresentarle e, finalmente, a trasformarle in coraggiosa parola scritta[4]. Un comprensibile “lavoro immane”, come avrà il modo di scrivermi in privato l’autore.

Nel libro non appaiono soltanto personaggi adulti, ci sono anche i bambini. Bambini apolidi, nati nelle foreste ai confini dell’Europa; bambini dagli occhi grandi, infangati, fermi da lunghi mesi nelle jungle o negli squat umidi e gelati della Bosnia; piccoli imbacuccati portati a spalla di notte su sentieri verso mete improbabili; bambini siriani, figli della guerra, bambini sfollati, allo stesso tempo “felici e disperati”, che già mostrano segni di sofferenza psichica perché “vivono sulla loro pelle i rantolii di un mondo che non li vuole” (ibid., p. 204). La nostra guerra invisibile produce, oggi, migliaia di bambini deprivati, il cui sviluppo psicotico e antisociale sarà diretta conseguenza, come insegna e chiama alla riflessione un attualissimo Winnicott (1986).

Emerge poi, durante la lettura, il tema del nemico storico: “gli arabi, i turchi, i levantini, gli scuri di pelle, tutto quanto ci fa paura da secoli” (ibid., p. 124), tema profondamente presente nell’intergenerazionale, nelle nostre alleanze inconsce, per dirla con Kaës[5], modalità inconsce che agiscono evidentemente anche oggi nel politico e nel sociale, giustificando violenze e abusi, denigrando tutte le morti di questa guerra invisibile.

Emerge la figura dello straniero come specchio di ciò che noi di noi stessi non tolleriamo, “dal momento che non si tratta mai soltanto di confrontarsi con un altro culturale esterno ma anche di entrare in contatto con uno straniero interno dal potente effetto perturbante” (De Micco 2022a, p. 678; De Micco 2022b). Viene dunque descritto il rancore profondo interno alle società occidentali, alimentato dalla propaganda consumistica e dalle diseguaglianze sociali, secondo il quale “i poveri odiano i poveri e amano i ricchi. (…) Il popolo odia e detesta più o meno tutto quanto rappresenta una concorrenza in arrivo da ‘lontano’ e soprattutto odia lo specchio in cui vede la propria condizione: lo straniero, l’alieno, il migrante, il rifugiato, un altro povero come lui che si ammassa nella sua via rotta, nel suo palazzo fetido, nella sua scuola che cade a pezzi” (Pagliassotti 2023, pp. 201-202)[6].

Qui si legge chiaramente la fragilità e la caducità, forse anche il fallimento, della Kulturarbeit, la cosiddetta ‘civiltà’, “che edifica la psiche attraverso la cultura, e viceversa radica le culture nella psiche, lavoro che, nondimeno, resta costantemente parziale e precario, costituendo un confine labile e sempre ‘a rischio’ di dissoluzione. (…) Essendo evidente che le stesse potenziali fonti di costruzione dell’umano possono ribaltarsi in fonti di scivolamento sempre più marcato verso il disumano” (De Micco 2022a, p. 669).

Ecco perché questa storia, in fondo, “non riguarda loro. Riguarda noi” (Pagliassotti 2023, p. XIV). Riguarda la perversione di “un’Europa ossessionata da una paura ridicola e da una ferocia altrettanto seria” (ibid., p. 109), che solleva altissime muraglie di cemento e filo spinato sorvegliate da droni, che sguinzaglia cani e piazza microcamere nei boschi che separano geograficamente la Bosnia dalla Croazia, la Turchia dalla Grecia, che tortura fino allo stremo le persone prima di rimandarle indietro, fuori dai nostri confini fortificati. ‘Pedagogia del terrore’, deterrente per chi intende provarci o riprovarci[7].

Spesso durante il viaggio l’autore si appoggerà al fatto di possedere il documento italiano, che giustamente chiama “passaporto d’acciaio”, e nei luoghi in cui nemmeno questo passaporto risolve situazioni di pericolo personale, si troverà ad ammorbidire le guardie insospettite con storielle “da caserma”, di quelle che “tra maschi beceri funzionano sempre” (ibid., p. 193). Fino a giungere, anche lui, al limite. A due passi dal confine turco-iraniano, Pagliassotti tocca lo stremo, arriva al punto di risoluzione della sua esperienza. “Sono – scrive – al confine estremo della sopportazione e semplicemente non tollero più questo dolore, la violenza continua, la sopraffazione. Allora decido di uscire, io che posso” (ibid., p. 233). L’opzione exit, quella di quando ci si stufa di un videogioco, nel game è prerogativa dei bianchi occidentali. Gli altri, i ‘nemici invisibili’ sui quali sopravviviamo vomitando il nostro ‘negativo’, rimangono lì, senza avere la forza di andare avanti né la possibilità di tronare indietro. “I migranti muoiono così, da vivi” (ibid., p. 219).

Intanto, “la fabbrica della frontiera spinge a pieno ritmo e ogni giorno produce i suoi pezzi umani, vestiti, cibo, trafficanti, scarpe, benzina, carte telefoniche, caramelle, dolci, carta igienica” (ibid., p. 233). Noi li chiamiamo tutti, indifferentemente, ‘rifiuti’.

Sicuramente il lettore si sarà chiesto: ma perché quelle povere persone, quelle famiglie, quelle giovani donne che concepiscono e partoriscono nel bosco, intraprendono un viaggio talmente pericoloso e violento, sapendo che forse non ce la faranno? La risposta è semplice e profonda: proprio per quel forse[8]. Per quel rischio che nel loro inconscio (nella loro incoscienza?) non è rischio di morire, bensì è il rischio del vivere[9]. Perché il rischio, in economia e in sociologia, è l’imponderabile connesso a una scelta, ma le politiche occidentali lo trasformano in taglio netto, in lacerazione, con conseguente caduta in terribili forme di non-senso e di disumano, delle quali i migranti sono vittime e capri espiatori.

Giungiamo così a quel tratto emotivo che percorre tutto il libro ma che non a caso Pagliassotti cita solo in conclusione: la speranza. “Ho visto speranza un po’ ovunque: nelle giungle, nel fango, tra le montagne, alle frontiere fortificate e lungo i fiumi paludosi che inghiottono, e gli occhi colmi di speranza non hanno a che fare con la razionalità, bruciano la fiamma della follia, forse della fede” (ibid., p. 224). Winnicott di nuovo insegna: effettivamente, la speranza ha a che fare con quella che noi chiamiamo ‘follia’ molto più che con la razionalità. E’ nella fase della speranza che un bambino mette alla prova l’ambiente circostante, apparendo provocatore e agendo in modo ‘folle’, cioè non comprensibile; ma se a questo bambino “si offre un ambiente forte e stabile che provveda cura e amore” (1986, p. 150), le relazioni si distendono, i desideri si significano, i sogni si pensano, la ‘follia’ della speranza scompare. Tutto questo, purtroppo, l’Europa non riesce a offrire ai piccoli gruppi di sparuti migranti che si presentano alle sue porte privilegiate d’ingresso. Libia, Tunisia, Turchia, Bosnia, diventano dunque prigioni a cielo aperto per esseri ancora umani, nonostante tutto, spinti alla ‘follia’, pieni di speranza.

Ma forse ugualmente ‘folle’ è stata l’impresa di Pagliassotti, coraggioso tentativo di sopravvivenza etica di fronte all’evidente caduta nel disumano che caratterizza la contemporaneità occidentale, alla quale molti di noi assistono, consapevoli e inermi.

Bibliografia

De Micco V. (2022a), Il rischio nel vivere. Itinerari della soggettività e condizioni antropologiche estreme, in Rivista di Psicoanalisi, LXVIII, 3

De Micco V. (2022b), Migrazioni, Inconsci e Culture: la clinica dello straniero, in www.psicoanalisiesociale.it, https://www.psicoanalisiesociale.it/migrazioni-inconsci-e-culture-la-clinica-dello-straniero-virginia-de-micco/

Kaës R., La trasmissione delle alleanze inconsce, organizzatori metapsichici e metasociali, in AA.VV., Generi e generazioni, Centro psicoanalitico di Roma, SPI, Franco Angeli, Milano 2008

Preta L. (acd), Geographies of Psychoanalysis, Mimesis International, Milano 2015

Sivan E. E Khleifi M., Route 181. Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele, Bollati Boringheri, Torino 2004

Winnicott D. W., Il bambino deprivato. Le origini della tendenza antisociale, Raffaello Cortina, Milano 1986

[1] Virginia De Micco (2022a) descrive e argomenta alla luce di autorevoli voci “quanto la possibilità di scivolare nel disumano costituisca un rischio quotidiano per l’umano” (p.666). Pagliassotti si è volutamente esposto a un’esperienza-limite, di cui De Micco, nell’articolo appena citato, rende magistralmente conto dal punto di vista psicoanalitico e antropologico.

[2] Bellissima e particolarmente azzeccata anche in questo contesto è la citazione di Silvia Ronchey, dai versi di un rivoluzionario francese del 19mo secolo: “ “Les frontières son lignes de craie sur le sol que nos peurs sacralisent”, “Borders are chalk lines in the earth hallowed by our fears” (cit. in Preta 2015). Linee di gesso vengono tracciate e si cancellano, esistono e si dissolvono. Il confine che Pagliassotti oltrepassa non è quello geografico, è il fronte dell’odio su di un suolo consacrato, appunto, dalle nostre paure.

[3] Si tratta del primo volume della raccolta di saggi: The political economy of hunger, pubblicata da A. K. Sen in collaborazione con J. Drèze nel 1990-91. Mi venne per le mani a suo tempo, in una biblioteca universitaria, e credo che mai scorderò quella frase iniziale, tanto lapidaria quanto vera. I numerosi saggi di Sen rimangono ancora oggi interessantissimi per il loro valore sociale, etico e filosofico.

[4] Allo stesso modo, l’audace road movie “Route 181” di Eyal Sivan e Michel Khleifi (2004), che ripercorre la linea di ‘spartizione della Palestina’ tracciata dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 lasciando libera parola alle persone incontrate, diviene psicoanalisi collettiva di quel fazzoletto di terra (santa?) conteso e occupato.

[5] Le alleanze inconsce, secondo René Kaës, sono organizzazioni metapsichiche che “contribuiscono alla strutturazione della psiche nella sua organizzazione narcisistica e oggettuale, nelle sue modalità di realizzazione del desiderio, nelle sue formazioni difensive o alienanti” (2008, p. 36). L’essere umano possiede la specificità della trasmissione della vita psichica di generazione in generazione per cui, oltre agli affetti, ai legami, agli investimenti di vita, si ereditano fantasmi, oggetti enigmatici, silenzi, traumi, dinieghi collettivi senza poterne diventare il soggetto. Questo stesso meccanismo difensivo e alienante trasforma in  ‘nemico’ colui che osa avvicinare i nostri confini di Stato e mettere in discussione il nostro contratto narcisistico.

[6] Virginia De Micco ci propone una riflessione dal taglio psicoanalitico utilizzando parole di un parallelismo sorprendente con la constatazione del giornalista Pagliassotti. Spesso si dà, secondo l’autrice, “un violento rigetto nei confronti di quell’umano che sembra aver perso tutte le marche ‘riconoscibili’ dell’umano: specchiarci in quest’umano in cui si rinnova la dimensione di una Hilflosigkeit senza riscatto possibile, perché ‘caduta’ al di fuori dello spazio del rappresentabile, perché tagliata via da ogni istanza di rispecchiamento, non apre che all’orrore del fondamento mancante dell’umano senza lo sguardo d’amore desiderante che lo ha ‘convocato’ nel mondo” (2022a, p. 672). E ancora: “Lo straniero, l’estraneo, ci mette sotto gli occhi l’inidentificabile nell’umano (…), lo scandalo psichico di quanto vi è di reale nell’umano, quello che nell’umano non può essere né simbolizzato, né fantasmatizzato ma che funziona come un reale bruto non significative, la cosa umana” (ibid., p. 673).

[7] E’ noto che questi tentativi di ingresso nella Fortezza Europa (politically correctly denominata Unione Europea) vengano chiamati “the game” da chi li intraprende. Effettivamente, per sorridere amaramente, quelle narrate nel libro sembrano tutte “storie da videogioco, di quelli dove devi superare dei livelli e se perdi vieni rispedito indietro e ricominci da capo” (Pagliassotti 2023, p. 219).

[8] Devo tale spunto, che con un “forse” tocca le verità e le speranze di questo popolo in marcia, all’incipit del bellissimo spettacolo teatrale “Human” di Mauro Baliani e Lella Costa.

[9] Devo tale espressione al denso e illuminante studio sul ‘rischio’ di Virginia de Micco (2022a), già ampiamente citato in questa recensione.