Storia di Natale

di Silvia Golino

Al valico del Brennero succede come a Lampedusa. In fondo, entrambi rappresentano confini: gli estremi settentrionale e meridionale d’Italia. Da Bolzano fino quasi al confine con l’Austria scorre il fiume Isarco. In quella vallata – che ci piace chiamare il Molo del Nord – avvengono transiti, approdi, naufragi, salvataggi. Ci sono i morti e i sopravvissuti, c’è chi non arriva, chi arriva e non ha più nulla, chi si ferma per un po’, chi desidera proseguire subito il viaggio verso nord o verso ovest. E ancora, c’è chi giunge da nord e tenta un nuovo canale di ammissione per poter rimanere regolare in Europa. A Bolzano come a Lampedusa: tutti aggrappati a un molo e a un forse (forse ce la farò; forse arriveremo; forse non morirò; forse ci riuniremo…).
Quella che sto per raccontare è una storia vera, avvenuta al valico del Brennero nell’inverno tra il 2017 e il 2018. In tarda serata, durante la perquisizione di un treno merci diretto verso nord, gli agenti di frontiera sentono un lamento e scoprono, nascosto in un anfratto tra ferro e lamiere, un bambino di cinque o sei anni, solo, in ipotermia. Il piccolo viene subito soccorso, riscaldato, nutrito. Non parla italiano ma riesce a far capire il proprio nome. Appena dichiarato guarito, da un punto di vista medico, il Tribunale dei Minori di Bolzano inizia la ricerca della famiglia d’origine e allo stesso tempo lancia l’appello per qualcuno che prenda il bambino in affidamento e gli offra calore familiare per il tempo necessario. La mia amica A, da brava combattente, decide di rinunciare al proprio relax da genitore di classe media con figli già quasi indipendenti, per accogliere il bambino in casa loro. Per il tempo necessario, si diceva. Tempo che, a causa di vari avvicendamenti e indagini giudiziarie, si trasforma in tempo indeterminato.
Il bambino, sano e guarito dal punto di vista organico, è completamente destrutturato dentro, cerca attenzione e contenimento, tenta in malo modo di riempire i suoi vuoti, il suo corpo e il suo dolore sono un tutt’uno, mette fortemente alla prova l’ambiente familiare, sociale, scolastico.
Eppure la mia amica A, che nei giorni e nei mesi, nonostante tutto, vede crescere il proprio affetto (i propri affetti?) per quel piccolo, tiene testa. Divengono l’uno parte della vita dell’altra, in un non facile rapporto di vero amore e di equilibri familiari e istituzionali da gestire. Perché, si sa, la reazione più immediata ad agiti provocatori sono agiti simili: meccanismi difensivi altrettanto disfunzionali di diniego, repulsione, allontanamento.
Mi sono sempre chiesta se A avesse allora immaginato quanto faticosa potesse essere questa accoglienza, quando “accogliere” non basta per tenere insieme un’anima in frantumi, ma bisogna anche filtrare e contenere impensabili espressioni di dolore. Mi sono chiesta se A avesse preso in considerazione il lungo e complesso percorso di accompagnamento del bambino verso la ricerca e ricucitura delle proprie parti, dei propri oggetti (forse in lui rimasti ancora fortemente soggettivi) dispersi, spezzati durante il suo lungo viaggio infantile-adulto dall’Africa fino al Brennero, con la morte negli occhi, nascosto chissà da chi e chissà come su un treno merci che viaggiava a una temperatura sotto lo zero.

Me lo sono chiesta, ma non lo ho mai chiesto alla mia amica A, combattente e caparbia, decisamente amante della Vita. Attendevo di capirlo da sola, lasciando tempo al tempo.
L’ho compreso in pieno quando, pochi giorni fa, la mia amica ha condiviso poche parole, una specie di poesia scritta da lei che racconta tutto; che riassume in modo sublime questi cinque anni di lotta comune e di cura reciproca. Ripropongo qui la poesia, a conclusione di questa Storia di Natale – una storia vera di Vita e di ri-Nascita – con la convinzione che il buttare se stessi dentro al dolore degli altri non sia soltanto Psicoanalisi, ma anche espressione di profonda e vera sensibilità umana:

Questi anni

La rabbia, la bellezza, la fatica.
Il mio non sapere, la mia approssimazione. Provare, forse non sono capace.
Non rifare gli errori che hai già fatto. Io non ti capisco, tu ci penserai.
Dopo.
Un equilibrio fra tutti.
La nostra sinergia per far andare bene. Laboratorio famiglia.
Perdoniamoci.

L’amore.
(A. L. 21/12/2023)