di Cosimo Schinaia

Abstract

Nell’articolo vi è una nuova riflessione sull’etica della responsabilità e una approfondita riflessione psicoanalitica sulla necessità di un lavoro culturale per sviluppare nuovi paradigmi ambientali e una nuova un’etica delle relazioni tra la nostra specie e le specie non umane. L’Autore pone l’accento sulla possibilità di accrescere lo spazio dell’Io ecologico: creare spazi di collaborazione e dialogo che permettano di ridurre l’intensità delle difese, di condividere i nostri mondi interni e prendere contatto con la creatività e con la nostra capacità riparativa. Pur riferendosi ad una cultura psicoanalitica ancorata nella tradizione, invita gli psicoanalisti ad essere capaci di una grande apertura mentale per far fronte alle nuove realtà psicosociali e approfondire lo studio dei nuovi disagi della civiltà, delle nuove declinazioni della sofferenza psichica in rapporto alla disintegrazione delle strutture identitarie tradizionali, dei garanti metapsichici quali li abbiamo conosciuti fino ad oggi.

“La creatura che la spunta contro il suo ambiente distrugge sé stessa”

Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, 1972 

 

Come fare fronte alla netta contraddizione tra, da una parte, le immagini del progresso, dell’inesauribile, dello sviluppo illimitato che si è eretto a modello non oltrepassabile e, dall’altra, le carestie e le informazioni sul clima che drammaticamente ci piovono addosso? Le informazioni scientifiche oggi a nostra disposizione sono però sufficientemente chiare e precise per consentirci di posare uno sguardo sul mondo meno distrattamente sorpreso, più consapevolmente maturo sugli effetti dell’Antropocene.

In un’ottica di etica ecologica, dobbiamo guardare con occhi limpidamente allarmati, non ingenuamente ottimistici o irresponsabilmente indifferenti, al consumo illimitato delle risorse del pianeta, sconsideratamente ritenute inesauribili. Oggi possiamo mettere in relazione gli esseri umani rispetto allo sfruttamento della Madre Terra con quanto Freud scrive in “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico” (1911) a proposito di Sua Maestà il Bambino, che dà per garantita e senza limiti, senza possibilità di estinzione la disponibilità materna a rispondere ai suoi bisogni urgenti e con il bambino descritto da Melanie Klein (1935), la cui fantasia inconscia consiste nell’inesauribilità del seno materno, che vuole totalmente possedere, come l’intero corpo di lei. È stato lo psicoanalista americano Harold F. Searles (1960), negli anni in cui incombeva la minaccia atomica e la paura della distruzione del pianeta, a dare senso e valore all’ambiente “non umano”, all’habitat quotidiano. Il mondo vegetale, gli animali, le strutture architettoniche degli ambienti domestici ed extradomestici, le suppellettili, l’arredo, tutto quanto oggi potrebbe essere definito biosfera, giocano un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo e del milieu sociale per la formazione psichica, soprattutto nell’infanzia.  Il senso di colleganza dell’umano con il non umano ha cominciato ad essere distorto, interrotto in concomitanza con il deterioramento ecologico che provoca l’apatia come difesa da angosce di vario genere e che si manifestano a vari livelli in relazione allo sviluppo dell’Io degli individui. L’analista messicano Fernando Cesarman già nel 1972 ha pubblicato il libro Ecocidio, assumendo una visione kleiniana della madre-terra e supponendo uno spostamento su di lei di impulsi vendicativi e depredatori, enfatizzando gli aspetti anali e sottolineando l’incapacità di rinuncia degli esseri umani. Negli anni 2000 hanno cominciato a diventare significativi e pregnanti molti scritti, fra cui vale la pena ricordare quelli di Josef Dodds, Sally Weintrobe, Luc Magnenat, Renee Lerzman, Paul Hoggett e il mio libro “L’inconscio e l’ambiente”. Psicoanalisi e ecologia”, ed. Alpes, 2021, pubblicato anche in spagnolo, inglese, francese e in traduzione in russo e portoghese. Tra l’altro per dare conto dell’importanza di questa tematica, in occasione della futura pubblicazione della terza edizione del loro Textbook of Psychoanalysis, Glen Gabbard e Paul Williams mi hanno chiesto di partecipare alla stesura di un capitolo sugli effetti psichici dei cambiamenti climatici.

Ovviamente non sono né la scienza, né la tecnologia in sé il problema, ma sono un problema sia la ricerca tecnologica orientata dagli interessi dei potentati economico-industriali e non dall’obbiettivo perseguimento del miglioramento delle condizioni di vita delle persone, sia l’uso perverso che della tecnologia facciamo; utilizzo che diventa estremamente problematico quando ricorriamo ad essa senza rispettare i ritmi e le leggi della natura con modalità deliranti per negare la nostra convulsa dipendenza dalle emozioni, dagli affetti, dagli oggetti sia interni che esterni, per negare il nostro inconscio attraverso modalità ipercompensative. Inconsciamente identificandoci con quella che percepiamo come l’onnipotente e immortale tecnologia, non vogliamo vedere il lato oscuro del nostro benessere sociale e dello stile di vita occidentale, nonostante le informazioni in abbondanza sulla gravità dello stato del pianeta. Ne discende che tendiamo a proteggerci da sentimenti intollerabili di insignificanza, deprivazione, perdita, paura della morte e dal senso di colpa che risulterebbe dal riconoscere la nostra implicita complicità o convivenza con l’inumano inteso come annientamento dell’umano, con lo sfruttamento cieco delle risorse naturali, con i costi e le ricadute distruttive che ne conseguono, reagendo con una severa e pervasiva apatia. L’apatia può manifestarsi di volta in volta con indifferenza, noncuranza, trascuratezza, avidità, disattenzione, pigrizia, minimizzazione. L’apatia, intesa come deficit di interesse e coinvolgimento, consente di deproblematizzare le nostre paure, enfatizzando l’ampiezza dell’intervallo di tempo prima che le conseguenze del riscaldamento climatico vengano pienamente avvertite, oppure erodendo scetticamente la credibilità e l’autorità della scienza.

Continuiamo a respirare, a bere acqua, a prendere i bagni in mare, a giocare sulla neve e a godere del verde senza remore e senza la concreta percezione del pericolo, tendendo a produrre narrazioni e interpretazioni semplificate. Se comincia a venire meno la convinzione nel diritto al benessere acquisito, comincia a serpeggiare una paralisi del pensiero, un’angoscia di irreparabilità, un intenso senso di inquietudine riguardo a un futuro che da promessa diventa minaccia.

Problemi troppo grandi, troppo complessi, non immediatamente visibili, ci fanno fare i conti con la nostra impotenza ad affrontarli, da cui tendiamo a difenderci con l’appianamento delle dissonanze cognitive che, a loro volta, favoriscono il disinteresse, le dinamiche di distanziamento o addirittura la ristrettezza mentale. Ci sentiamo costretti a restringere le nostre menti, a mettere in atto un vero e proprio sistema di anti-conoscenza, a viverci come spettatori amorfi senza alcuna responsabilità, piuttosto che come attori intrinsecamente corresponsabili, perché riesce arduo accettare la compartecipazione a un crimine tanto enorme. Renee Lertzman (2015) introduce l’idea di una “melanconia ambientale” per descrivere la condizione di lutto inelaborato in relazione agli effetti dell’emergenza climatica. Melanconia ambientale è la condizione in cui anche coloro che tengono profondamente a cuore il benessere degli ecosistemi e delle generazioni future sono paralizzati quando devono tradurre le loro preoccupazioni in azione. Non si tratta di apatia (mancanza di pathos), di inerzia emotiva o di mancanza di consapevolezza, quanto del fatto che il sentire troppo e troppo intensamente porterebbe alla paralisi e alla sensazione di impotenza ad agire.

La dimensione etica consiste nella prassi di un agire orientato alla creazione di un paradigma di felicità e di desiderio alternativo rispetto a quello finora conosciuto, dettato dal sistema capitalistico contemporaneo, che propone un modello di progresso infinito e di massimizzazione del profitto, che orienta le scelte individuali e collettive verso forme aggressive di sfruttamento delle risorse ambientali.

La crisi ambientale è una traumatica crisi esistenziale che mette in discussione la costituzione stessa del nostro tessuto umano e ci infligge una ferita morale, che richiede un notevole lavoro culturale per sviluppare nuovi paradigmi ambientali e una nuova un’etica delle relazioni tra la nostra specie e le specie non umane.

Ritengo vitale e urgente che su questi temi i diversi ambiti culturali e scientifici possano dialogare e confrontarsi, se necessario anche polemicamente, onde evitare di rinchiudersi nella torre eburnea di uno specialismo asfittico e autoreferenziale, di trovarci di fronte a ciò che Ferenczi (1932) aveva definito “La confusione delle lingue”.

È necessario insistere sul concetto di abitabilità del pianeta, secondo cui qualsiasi organismo vivente crea le condizioni di vita per gli altri. Non vi è niente di intenzionale, armonioso e provvidenziale in Gaia, ma vi è soltanto un’utile interazione fra le condizioni di vita dei diversi organismi che la popolano.

David Quammen (2018) scrive che recenti ricerche hanno dimostrato che i geni non si spostano soltanto in senso verticale, da una generazione alla successiva, ma anche lateralmente e che possono attraversare i confini di specie e passare da un regno all’altro. Queste ricerche, provando a fare luce sui rapporti filogenetici fra tutti gli esseri che popolano la Terra, sollevano interrogativi inquietanti sul concetto stesso di specie e di individuo.

Dovremmo diventare, quindi, fautori della conservazione dei beni comuni e della valorizzazione della bellezza in tutte le sue manifestazioni, costruendo una concreta transizione ecologica, in cui l’innovazione possa essere uno strumento di azione responsabile, che tenga conto dell’integrità degli ecosistemi e non ne alteri i delicati equilibri.

Insieme alla bellezza, vanno valorizzati il benessere psicofisico e, ancora, il futuro dei nostri figli e nipoti, evitando che modalità denegatorie, fossilizzazioni o incistamenti psichici, oggi ampiamente presenti nello psichico, possano depositarsi e riprodursi nello psichico delle generazioni future, riproducendo i gravi danni che infliggiamo all’ambiente come un’ipoteca dell’antenato nei confronti della discendenza. Nella trasmissione tra le generazioni avviene un processo di identificazione che condensa una storia che in gran parte non appartiene alle generazioni future. Sottraendo valore al contratto che lega ciascuno all’insieme e l’insieme a ciascuno, noi alla terra e la terra a noi, trasmettiamo i sintomi, i meccanismi di difesa, l’organizzazione delle relazioni oggettuali, i significanti, in cui si articolano forme e processi della realtà psichica del singolo soggetto con le forme e i processi che si costituiscono nei legami intersoggettivi e, più in generale, nel rapporto con l’ambiente (Kaës, 1993).

Il movimento ecologista ha innegabili grandi meriti storici nella lotta per la prevenzione, la riduzione e la riparazione dei danni ambientali, ma è necessario affrontare alcuni aspetti contradditori presenti nella storia del movimento e della sua ideologia per evitare errori di valutazione e di comunicazione che possano ridurre la portata e l’impatto del messaggio ambientalista.

L’adesione conformisticamente fanatica all’ideologia ecologista, intesa come rifugio rispetto alla paura di sentire, di pensare, di confrontarsi, è anch’esso un meccanismo di difesa che, enfatizzando idealmente il rapporto dell’uomo con la natura, nei fatti lo snatura, rendendolo retorico e sostanzialmente infruibile. L’esaltazione acritica del mondo naturale in cui, parafrasando il Candido di Voltaire, tutto andrebbe per il meglio nel migliore dei mondi possibili, la drammatizzazione ossessiva delle pratiche di difesa ambientale, l’uso prolungato di toni allarmistici e di interpretazioni apocalittiche, l’opposizione al progresso scientifico, possono diventare il terreno di coltura per processi di fusione magmatica, per una sostituzione dei processi di simbolizzazione, per un processo di identificazione con la mentalità del gruppo in assunto di base, sostenuta da idealizzazioni allucinosiche. Le perdite e i conflitti producono movimenti difensivi quali il diniego, il distanziamento, l’apatia. Una buona strategia potrebbe essere quella di renderci emozionalmente sicuri, in modo da creare spazi di collaborazione e dialogo che permettano di ridurre l’intensità delle nostre difese, di condividere i nostri mondi interni e prendere contatto con la nostra creatività e con la nostra capacità riparativa. Creare condizioni di partecipazione, evitare di dare giudizi drastici, riducendo lo spazio del Superio ecologico, favorire un clima di collaborazione, accrescendo lo spazio dell’Io ecologico, per il contenimento e la regimentazione degli effetti della crisi ambientale, sono operazioni che incoraggiano le persone a esplorare i loro dilemmi interiori e favoriscono la liberazione della sollecitudine, del prendersi cura, della creatività. È necessario ricercare e aiutare a creare una nuova bioetica del futuro, accettando la complessità della realtà su scala globale, in cui il buono e il cattivo non sono facilmente individuabili e districabili, piuttosto che lasciarsi andare alla fantasia di ricreare la nostalgica certezza di un tempo e un luogo in cui i gruppi umani del passato vivevano in un’edenica naturale armonia con l’ambiente incontaminato, mettendo dentro di loro le nostre romantiche proiezioni idealizzanti.

L’appassionato appello di Ulisse ai suoi compagni perché proseguano il viaggio oltre le colonne d’Ercole, confine ultimo del mondo allora conosciuto: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza[1] andrebbe letto, a mio avviso, come sprone a un continuo lavoro di integrazione tra l’insopprimibile e coraggioso anelito alla conoscenza e al progresso insito nella natura umana e la considerazione depressivamente virtuosa ma altrettanto coraggiosa dei propri limiti, quella virtute spesso messa in secondo piano dai commentatori.

Credo che la metafora di Bateson (1972) dell’acrobata sul filo teso nel vuoto che, per non cadere, ha bisogno della massima libertà per spostarsi da una posizione di instabilità a un’altra, possa rappresentare bene la condizione emotiva ed esistenziale dell’uomo moderno, fatta di un alternarsi conflittuale di messa in atto di meccanismi di difesa, ma anche di processi, lenti ma continui, di consapevolizzazione individuale e collettiva e di assunzione depressiva dei limiti del progresso e della finitezza della condizione umana.

La psicoanalisi non può dare risposte preconfezionate e consolatorie a problematiche così complesse e che implicano sguardi e decisioni di ordine politico, economico, sociale, ma può aiutarci a riflettere sulle domande che vengono poste dagli individui e dalle comunità, evitando scorciatoie semplicistiche e rassicuranti. Grazie alla psicoanalisi sappiamo che aspetti perversi e distruttivi della natura umana non sono rinvenibili soltanto nei criminali, negli uomini cattivi oppure nei negazionisti climatici più incalliti, ma sono presenti in ognuno di noi. La ricerca della verità, il bisogno di armonizzazione del diritto alla salute con il diritto al lavoro, necessitano di un intenso lavoro non solo politico-sociale, ma anche emotivo, in quanto si tratta di far fronte al dubbio e all’incertezza, che producono anche profonde angosce con il corteo di paura, sospetto, senso di persecuzione, che le esperienze nei gruppi tendono ad incrementare (Bion, 1961).

La psicoanalisi sebbene strutturata, almeno dal punto di vista del suo apparato terapeutico, su un incontro diretto ed esclusivo con l’interiorità del paziente, col suo mondo fantasmatico e pulsionale, dedita alla costruzione dello specifico spazio analitico creato dall’incontro degli inconsci dell’analista e del paziente, pure non può non interrogarsi su questi grandi mutamenti e su come riorientino il pensiero sulla psiche e sulle sue dinamiche. Scriveva Freud a Groddeck il 21 dicembre 1924: “È difficile esercitare la psicoanalisi da isolato: si tratta di un’impresa squisitamente collettiva”.

Oggi gli psicoanalisti, pur riferendosi a una cultura psicoanalitica ancorata nella tradizione, devono essere capaci di una grande apertura mentale per far fronte alle nuove realtà psicosociali e approfondire lo studio dei nuovi disagi della civiltà, delle nuove declinazioni della sofferenza psichica in rapporto alla disintegrazione delle strutture identitarie tradizionali, dei garanti metapsichici quali li abbiamo conosciuti fino ad oggi.

Seppure il deserto, le montagne, il mare, le foreste e gli animali forniscano materiale per i sintomi e per i sogni, non bisognerebbe ridurli a semplici fornitori di materiale simbolico per la psiche. Gli studi etologici dimostrano che non è più possibile negare agli elementi della natura esterna forme di sensibilità e di linguaggio che si intersecano con il linguaggio umano.

Credo che oggi, perché sia possibile mettere in atto un cambiamento positivo, sia necessario fare i conti con quelle angosce intrise di confusione, smarrimento, rabbia, risentimento rassegnato, dolore, paura; rilevare il diniego, che è l’altra faccia del sentimento di incapacità di modificare il corso degli eventi, ma anche affrontare il senso di colpa, i sentimenti di vergogna, la crisi dell’autostima, successivi al miope utilitarismo, frutto anche di criminali manipolazioni della verità, che ha indotto i lavoratori e gli abitanti della città a credere che si trattasse di una buona vita quella a loro offerta. Insieme, tutti questi sommovimenti emotivi hanno prodotto le scissioni psichiche che, a livello individuale e gruppale, sono andate costituendosi nei riguardi di una produzione delle merci spesso mortifera, ma che ha portato grande profitto, evidenziando la difficoltà a integrare le rappresentazioni dell’oggetto in immagini articolate. Per potere affrontare debitamente questi processi distruttivi, favorendo lo sviluppo di risorse egoiche a sostegno delle parti sofferenti del Sé, è utile un aiuto esterno, che come psicoanalisti possiamo dare.

Nina Coltart (1993) sostiene che in un mondo ideale tutti gli psicoterapeuti dovrebbero avere un giardino, pensando ai giardini come fonti di nutrimento emotivo e all’attività di giardinaggio, non solo come possibilità di provare un maggior senso di libertà e di maggiore prontezza sensoriale, non solo come uno svago per la mente, ma come un’area simbolica di sopravvivenza emotiva, in cui il sé possa ristorarsi e trovare riposo.

La nostra biosfera è il metasetting fecondo e contenitivo, la cui stabilità dovrebbe assicurare la base nutritiva, narcisistica, identitaria della nostra personalità e delle nostre collettività (Magnenat, 2019). Se per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui loro necessitavano, oggi sono i figli a doversi prendere cura della loro Madre-Terra, prendendo atto della senescenza del nostro habitat, come del resto avviene quando i nostri genitori invecchiano.

Dobbiamo sapere ascoltare il grido d’aiuto sempre più forte che proviene dalla natura e, quindi dare ascolto oggi alle esigenze delle persone, delle specie e degli ecosistemi, anche quelli più lontani, da cui la nostra esistenza dipende, e contemporaneamente tendere l’orecchio alle esigenze delle generazioni future e alla preservazione dei beni comuni, come l’atmosfera e gli oceani, la cui esistenza, domani, dipenderà dai nostri stili di vita.

Nonostante l’orizzonte temporale per intraprendere un’azione efficace sia molto ristretto, per il bene dell’umanità, prendiamo atto sia che siamo parte del problema, sia che siamo parte della soluzione, che nell’epoca dell’Antropocene dobbiamo farci carico di una nuova presa di coscienza e di una nuova etica, evitando pericolose razionalizzazioni. Pertanto, proviamo a fare i conti con gli impedimenti esterni, e per quello che riguarda noi psicoanalisti, interni, per mettere in atto tutti i tentativi possibili per favorire le condizioni che valorizzino l’espressione della cura e della premura nei riguardi dell’ambiente, senza abbatterci quando alcuni di essi falliranno! Una proposta, quindi di difesa della natura, in opposizione alla difesa dalla natura, che non ha nulla di ascetico, ma che incita alla frugalità, alla generosità e all’umiltà, termine che deriva da humus, terra. Se è vero che vi sono delle modalità soggettive esclusive di avvertire le angosce legate all’ambiente e ai suoi cambiamenti, è altrettanto vero che esse non provengono unicamente e esclusivamente dal soggetto, ma sono anche l’espressione del suo ambiente umano e non umano. Si tratta di angosce inedite, verso le quali non siamo veramente equipaggiati (Desveaux, 2020).

Credo che per quanto riguarda i rischi di catastrofe ecologica, determinata da uno sviluppo senza regole e senza memoria, quindi “cannibalistico”, sia necessario esplorare le dinamiche individuali e i conflitti sottostanti, nonché le dinamiche e gli stili di vita familiari che vengono appresi e fatti propri. Questa ricognizione è il punto di partenza per modificare le dinamiche e gli stili di vita individuali e familiari, la volatilità delle esigenze indotte dalla pubblicità, e  per permettere, in una ritrovata dimensione di collaborazione fraterna, che ogni singola azione sostenibile sia creativa, rispettosamente riparativa e diventi parte di un rinnovamento globale attraverso una riassunzione di responsabilità individuale, in un orizzonte di senso che faccia riferimento rigorosamente al principio di realtà, ma opponendosi allo scetticismo di chi pensa che il singolo sia condannato all’impotenza, rinchiuso in una sorta di melanconia ambientale suicida.

Scrive Dennis Haseley (2019, p. 110): “Quando ascolto i miei pazienti o parlo a loro, ci sono altre forze che premono su di noi: i cambiamenti del nostro clima e il modo in cui consciamente o inconsciamente li registriamo dentro di noi. La nostra cultura, compresa la nostra cultura psicoanalitica, gli aerei che prendiamo, le corse dei taxi dall’aeroporto, il traffico, gli ambienti in cui teniamo i nostri incontri, gli edifici che incrociamo sulle nostre strade, le luci, gli spostamenti per raggiungere i nostri studi, il riscaldamento e l’aria condizionata, la nostra alimentazione, le guerre che si combattono lontano, poggiano sui carburanti fossili. Ne siamo circondati e ne siamo dipendenti. Questi aspetti e i relativi correlati culturali sono strettamente intrecciati con le nostre esistenze materiali e psicologiche, con le modalità attraverso cui simbolizziamo, con i nostri sogni, con i riti di passaggio dell’adolescenza, con le nostre fantasie inconsce di potere e desiderio. Siamo influenzati, consciamente e inconsciamente dalla loro onnipresenza.

Gli psicoanalisti dovrebbero assumere un chiaro impegno civile, una posizione politica netta e scevra da ogni fraintendimento nei confronti dell’urgente necessità di preservare e prendersi cura del mondo, partecipando allo sviluppo di un’etica ambientale che coinvolga anche la dieta alimentare che scegliamo, i prodotti che decidiamo di acquistare, il modo in cui costruiamo le nostre abitazioni e le nostre città e ci spostiamo nei nostri territori.

Gli psicoanalisti dovrebbero ravvivare in sé stessi la capacità di pensare e sognare un futuro migliore e di impegnarsi e contribuire alla valorizzazione del senso della misura, dell’equilibrio e della sobrietà e al mantenimento di una vita sufficientemente buona, in cui possa esserci spazio per l’amore e la creatività, ma anche per la conoscenza, contrastando il pensiero magico e illusorio e contemplando con integrità e sincerità anche gli aspetti spiacevoli dell’esistenza.

Bion (1974, p. 110) si domanda: “Come può un essere umano con mentalità e personalità umana non essere interessato o non occuparsi del futuro.”

Ciò che viene richiesto è una nuova capacità creativa, come non si è realizzata nel passato, un’immaginazione creativa che metta al centro della vita umana altri valori rispetto all’espansione della produzione e del consumo. Questo non solo è necessario per evitare la definitiva distruzione dell’ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per uscire dalla miseria psichica e morale degli esseri umani contemporanei (Castoriadis, 2007).

Scrive Dante Alighieri nel Purgatorio, riferendosi a Virgilio:

Facesti come quei che va di notte,

che porta il lume dietro e sé non giova,

ma dopo sé fa le persone dotte.

(Pg. XXII, 67-69)

Anche noi dovremmo operare come chi, nella notte, rischiara coloro che sono in cammino dietro di lui, come chi non lavora per sé, ma che rende esperti coloro che lo seguono.

Bibliografia

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NOTA

[1] Verso 119, canto XXVI dell’Inferno della 2Divina Commedia” di Dante Alighieri.

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© Vecchiarelli Editore – Tratto da “Raccolta Articoli Scientifici 2021” – ISBN 978-88-8247-452-2 – Riproduzione riservata