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Migranti, poi Senza Dimora, che passano dal Molo del Nord

Migranti, poi Senza Dimora, che passano dal Molo del Nord

In dialogo con Pino Refolo su marginalità e psicoanalisi

Silvia Golino

Andres Pietkiexicz

Ci ha molto stimolato l’inaugurazione dell’interessante area tematica “Psicoanalisi della Marginalità” in questo portale e siamo vicini al tema che emerge dal racconto “Antonio e la soluzione homelessness” (https://www.psicoanalisiesociale.it/antonio-e-la-soluzione-homelessness/). Leggiamo questa storia come una delle poche vicende personali che aprono alla speranza e a un probabile lieto fine.

Per quanto riguarda anche la nostra esperienza, iniziata già dal 2010, si tratta di una storia che apre anche a riflessioni sulla realtà locale degli approdi al Molo del Nord.

In provincia di Bolzano, fino al 2014, a differenza del resto di Italia, il fenomeno dei pochi senza fissa dimora era rimasto nella dimensione fiabesca e romantica dell’homeless tradizionale. Ci riferiamo all’immagine del senza tetto autoctono che “tutti possono vedere ma nessuno li riconosce”[1]. E’ il senzatetto accolto dalla società che lo coccola, lo lascia vivere, lo assiste, lo protegge – se si lascia proteggere -, lo cura, pensa alla sua igiene, salute, che lo veste, lo sfama, lo saluta, e che, con la sua panchina, entra a far parte dell’arredo urbano fino all’arrivo del rigido inverno, quando vengono aperti i centri di emergenza freddo, simili a pensioni dove trovano un  riparo e la mensa. I servizi preposti alla cura e custodia del nostro patrimonio di senzatetto avevano così inteso il modo di affrontare il problema: convivenza pacifica con la ricca cittadinanza. Un’espressione della ricca e prospera comunità altoatesina, da mettere in mostra agli occhi di turisti e visitatori per dimostrare l’efficienza della nostra invidiata autonomia.

Nel 2015 però, iniziano i primi arrivi di stranieri (poveri) attraverso il Molo Nord: il valico del Brennero. La fragile struttura di accoglienza si dimostra inefficiente e inefficace. Il massiccio ingresso di fuggiaschi, formalmente richiedenti protezione internazionale, mette in panico le amministrazioni, che reagiscono a braccio, senza un progetto, preoccupate più dall’impatto economico su turismo e affari che non dalla tragedia umanitaria alla quale si stava assistendo. La politica locale non sapeva come gestire il fenomeno, per un anno sono stati considerati senza fissa dimora (erano in tanti per cui il budget della mensa si era ridotto a 1 euro a pasto) cioè un piatto di pasta a mezzogiorno, e la sera the e gallette. Le amministrazioni coinvolte si dedicavano a emettere protocolli senza senso e senza alcun effetto, la maggior parte per lo più assurdi e emessi solo al fine di evitare perdita di consenso da parte della cittadinanza abbiente che osservava con timore il nuovo fenomeno: “ci stanno invadendo…”. Potremmo continuare ma teniamo a far capire che  questo è stato l’inizio dell’attuale sistema di accoglienza per senza dimora che oggi vige nella nostra ricca Bolzano.

Per fortuna si è attivato il volontariato, unica risorsa, destrutturata, ma coerente, con vocazione all’aiuto. Sono nati gruppi spontanei, che hanno trovato locali di accoglienza ricavati in luoghi dismessi o inutilizzati. Si è creata una catena per garantire calore e alimenti; si è formata una task force di aiuto sanitario: volontari con specifiche conoscenze si sono offerti per assistere i nuovi arrivati, sfiniti dal tragico viaggio, in tutti quegli aspetti anche burocratici che caratterizzano la nostra complessa società occidentale.

Nel 2016 agli arrivi dal Molo Nord si sono aggiunti quelli dal Molo Sud: le “quote ministeriali” provenienti da sbarchi. Qualche notte veniva annunciato da Roma l’arrivo di due pullman (di notte, per evitare che la popolazione si rendesse conto delle dimensioni del fenomeno), la lista del “contenuto” veniva svelata soltanto al momento dell’arrivo a destinazione, onde evitare il rifiuto ad accogliere motivato da provenienza, genere, età.

I centri di emergenza (lo evidenzio in corsivo perché oggi, nel 2024, ancora si tratta il fenomeno come  un’emergenza) negli anni hanno proliferato, sono divenuti magazzini di esseri umani dislocati in zone industriali o artigianali lontane dal centro abitato.

Cioè, magazzini (Lager in tedesco… per buona memoria) di esseri umani costretti ad uscire alle 8 del mattino dall’accoglienza notturna (a meno cinque gradi negli inverni miti) fino alle 5 di sera. Esiste un luogo di rifugio diurno, ma è sempre un magazzino in zona industriale, con solo panche in legno dove sedersi. Ognuno lasciato a se stesso, affidati a organizzazioni con operatori che fungono da vigilantes, senza alcun sostegno concreto per tentare di uscire dal pozzo.

Non c’è per loro la telefonata, quella telefonata che voi avete “inventato” e che probabilmente ha salvato un’anima.

La struttura che si era creata fra il 2015 e il 2020 è stata “rasa al suolo” da un governo dove il primo ministro è stato capace di uccidere con un tweet (non è una esagerazione, qui da noi i è successo: a causa di un tweet un giovane è finito in un CPR dove lhanno suicidato…)[2]. Un primo ministro che con un colpo di spugna ha cancellato un sistema di accoglienza che era il fiore all’occhiello dell’Italia in Europa. Il taglio di risorse per il sistema di accoglienza ha eliminato: scuola, formazione, lingua, assistenza sanitaria, formazione al lavoro, ricerca di lavoro, supporto per l’ottenimento dei documenti e inclusione nel tessuto sociale.

Negli anni di Covid ci siamo trovati abbandonati a noi stessi a gestire ragazzi che facevano fatica a capire cosa stava succedendo, perché erano rinchiusi, per quale motivo c’era la celere fuori dal cancello, chi erano quei signori vestiti di bianco che ficcavano loro un palo nel naso e poi li dividevano in file: una che partiva in un pullman scortato e l’altra che rimaneva nel CAS, ma chiusa in camera. Non potevano più cucinarsi i pasti, non potevano più andare a lavorare, non potevano più stare assieme, il sogno stava diventando un incubo e non sapevano come spiegarlo alle loro famiglie lontane, che, fino a poco tempo prima, avevano potuto rassicurare confessando che era dura ma che ce l’avrebbero fatta!

Gli operatori formati nel 2015 avevano creato un metodo di ascolto e di supporto che si avvicina molto alla psicoanalisi, all’ascolto dell’anima. Ascoltavano con il cuore, ascoltavano profondamente, lasciavano che emergesse tutta la disperazione vissuta, il viaggio, la paura, le perdite, le torture, la prigione, il mare, e il grande – immenso – timore di deludere chi avevano lasciato, quelle famiglie che, con enormi sacrific,i avevano raccolto i soldi per il progetto familiare: “il viaggio”, sulla rotta balcanica chiamato anche “il gioco”. Bene: questi operatori fra cui vi erano professionisti, insegnanti, studenti, pensionati, medici, infermieri, avvocati, psicologi (e la lista non finisce più), tutti facevano parte di un’unica dimensione, un tratto comune: l’umanità.

Si inventavano metodi di insegnamento rapido delle lingue locali, si insegnava prima ciò che serviva per poter farsi capire. Si insegnava come destreggiarsi nella rete di assistenza sociale e sanitaria, si organizzavano momenti di incontro attorno a una pietanza e magari con una chitarra in mano, si organizzavano gite con pranzo al sacco sui monti innevati. Per loro tutto ciò era straordinario, per noi il quotidiano. Oggi rivediamo molti di questi ragazzi in giro per la città, sempre sorridenti. Sentiamo il loro saluto, ci fermano, corrono ad abbracciarci, loro non hanno dimenticato, “i nostri” sì. (“I nostri”, cioè quelle organizzazioni “no profit” che attraverso gli appalti a cui sono sottoposte, fanno gli interessi della politica più capricciosa e bieca di oggigiorno).

Se avessimo continuato seguendo il criterio proposto (e poi utilizzato in parte all’arrivo dei profughi Ucraini) di creare un hot spot di prima accoglienza con incluso i servizi di ufficio stranieri della questura, ambulatorio sanitario multietnico, ambulatorio etno-psicologico e psichiatrico, avamposto dei servizi sociali, sportello dell’ufficio lavoro e dell’intendenza scolastica, non ci saremmo fermati all’emergenza intesa soltanto come coprire e sfamare, ma avremmo creato una piramide dei bisogni in emergenza fino ad arrivare ad una solida base che permette poi in seguito integrazione e inclusione. Integrazione in prima fase attraverso piccoli centri distribuiti in tutto il territorio (come previsto dal progetto Sprar, art. 32 della L. 189/2002 ), in ogni comune, in proporzione al numero di abitanti. Inserimento nelle scuole dei minori e nel mercato del lavoro degli adulti, in base al progetto sviluppato durante la permanenza in prima accoglienza dove vengono già accolte le richieste di scuola e lavoro in relazione  alle caratteristiche di ogni persona, e destinando le stesse nei comuni dove possano svolgere lo studio e il mestiere che si sentono in grado di fare.

Questo era il processo avviato nel 2016 dall’allora assessora provinciale del partito autonomo SVP che , anche contro il parere dei propri colleghi, si era esposta a sostenere economicamente quei comuni che avessero aderito al progetto, penalizzando chi si rifiutava di collaborare. Poi sono arrivate le elezioni ed è sparita l’assessora con tutto il progetto. Anzi, l’ascesa di un noto partito populista ha addirittura spogliato ogni progetto dalle risorse e trasformato i centri di accoglienza in Lager, sostituendo operatori formati con ex ospiti dediti unicamente all’osservazione della sicurezza dello stabile e del personale. Parte delle associazioni si sono ritirate dal progetto, contestando tacitamente la decisione, e cosi altre hanno trovato lo spazio libero per espandersi pur consapevoli che il servizio offerto era a poco dire vergognoso e inumano, ma l’appalto dava ancora sufficienti risorse per pagare le alte gerarchie delle associazioni e il personale rimediato fra ex ospiti riduceva notevolmente i costi di esercizio.

In Alto Adige, caro Pino, abbiamo comunque avuto esperienze positive come quelle che descrivi tu, che cercheremo scrivere, per ampliare il dialogo anche alle altre realtà italiane.

 

 

[1] Riefolo G. e Raimondi S., Pazienti Senza Fissa Dimora e Servizi Territoriali, interventi di rete per pazienti senza tetto e senza cure, in Nuova rassegna di studi psichiatrici, vol. 17, 2018

https://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it/volume-17

[2] Morire di “malaccoglienza”. La storia di Harry. Arrivato come invisibile, morto da invisibile.

 https://www.lasciatecientrare.it/morire-di-malaccoglienza-la-storia-di-harry-arrivato-come-invisibile-morto-da-invisibile/

Il Sig. H., in Fondazione Alexander Langer (acd), (Un)welcome to Sudtirolo. Quattro pezzi facili, Bolzano 2020, p. 28 ss., https://www.meltingpot.org/app/uploads/2020/02/dossier_web.pdf

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