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Il senso della festa -di Cosimo Schinaia

Edoardo Sanguineti fu estremamente gentile e generoso quando gli chiesi di dialogare con me sul “senso della festa” in occasione della stesura del volume Il Cantiere delle Idee (La Clessidra, Genova, 1998) e della chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, del quale ero direttore. Durante il colloquio, si allontanava spesso dal corso principale dell’argomento per esplorare rivoli collaterali senza mai perdersi e senza mai farmi perdere. La sua abilità nel connettere eventi, fatti, pensieri, concetti, impressioni, emozioni era il filo di Arianna che mi permetteva di addentrarmi nel labirinto. Diventammo amici, anche se abbiamo continuato a darci del Lei. Viaggiammo insieme per Bologna quando, su mia proposta, gli fu conferito il premio Musatti nel 2001 e mi parlò delle sue amicizie intellettuali, delle sue idiosincrasie, del suo dispiacere per la non valorizzazione del pensiero di Groddeck in psicoanalisi. Molti ricorderanno quanto fu brillante e affettuoso, in quella occasione, nel paragonare la psicoanalisi a una bella donna desiderata e corteggiata che gli si concedeva proprio quando lui aveva perso ogni speranza.

Il libro in cui è stato pubblicato il dialogo è oggi introvabile, per cui lo ripropongo per il sito Psicoanalisi e Sociale.

Cosimo Schinaia

 

IL SENSO DELLA FESTA

Dialogo di Cosimo Schinaia[1] con Edoardo Sanguineti[2] in occasione della festa che ha sancito la chiusure dell’Ospedale Psichiatrico di Cogoleto.

Schinaia – L’organizzazione sociale attuale non prevede adeguati e significativi spazi fisici e mentali per la festa. Le grandi feste del passato hanno lasciato il posto a feste private che trovano la loro origine nel party americano; persone in piedi in un giardino o in una sala tengono in mano un piatto di plastica ripieno di cibi presi al buffet e fanno finta di divertirsi, sopraffatti dal rumore di una musica mescolata al vociare collettivo, eventualmente esibendo, annoiati, il proprio status attraverso gli abiti, i gioielli, il telefono cellulare.

Anche le feste pubbliche, però, paiono scisse dal desiderio di festeggiare. Sono spesso manifestazioni di massa prive di ogni comunicazione e piene di solitudine; la rappresentazione prevale sulla partecipazione, l’apparenza sul gusto per il festeggiamento. Viene richiesta la passività e l’adeguamento a comportamenti sociali freddi, di calcolata e centellinata espressività emotiva; nulla che ricordi neanche lontanamente i bagordi, lo spreco di energie, l’eccesso di coinvolgimento, l’euforia collettiva delle feste di una volta.

Sanguineti – La crisi della festività comincia a manifestarsi man mano che viene affermandosi l’organizzazione borghese della società. Nel mondo feudal-contadino, ricchissimo di feste, il lavoro è organizzato in base alle ore di luce, al cambio delle stagioni; il tempo contadino non è denaro e pertanto è più fluido e amministrabile. Lo storico francese Jacques Le Goff, inoltre, oppone il tempo della Chiesa, anch’esso come il tempo agricolo permeato di naturalità, al tempo del mercante. La Chiesa ha le sue ore canoniche con la preghiera del mattino, il vespro, ecc. La vita monacale è rigidamente scandita, così come la vita del parroco è fortemente guidata dal suo breviario. Il tempo del mercante è invece un tempo che ha valore; l’orario di lavoro pian piano si organizza e il tempo mercantile viene misurato attraverso il costo dei salari. Marx successivamente descriverà il tempo del lavoro come misura del valore dell’oggetto, della merce prodotta. Il tempo dei contadini e il tempo dei chierici devono fare i conti con l’affermarsi del tempo dei mercanti e con le nuove esigenze della costituenda società borghese. A partire dal Quattrocento, in successivi concili, la Chiesa comincia, pertanto, a tenere conto delle esigenze dei mercanti, riducendo sempre più drasticamente il numero delle feste e accogliendo all’interno della sua organizzazione quel tempo esatto, a cui non era originariamente interessata. Il calendario della chiesa diventa molto complicato a causa della compresenza del tempo naturale di origine contadina che regola le ore canoniche e del tempo libero del lavoratore salariato, fissato con il cronometro, al cui interno è possibile presenziare alle funzioni religiose. Ci sono feste fisse come il Natale e feste mobili come la Pasqua. Nell’organizzazione mercantile della società i tempi non sono più così scanditi come in passato; si può lavorare di giorno e di notte e la festa risponde prevalentemente a un’esigenza di riposo, che può avere una collocazione convenzionale. Nel tempo laico in opposizione al tempo sacro nessun giorno, nessuna ora è privilegiata; la tradizione può essere mantenuta ma, per esempio, se si vuole far festa a Natale, altri devono lavorare, pur essendo agevolati nell’espletamento del lavoro festivo, secondo regole contrattuali e sindacali.

Schinaia – Eppure nella società contemporanea la festa non è del tutto scomparsa; pur attraverso la rinuncia all’abbandono orgiastico, almeno in Europa vi è la tendenza a momenti collettivi di svago. Dopo la deriva scenografica delle feste barocche e la grandiosità delle parate militari dei secoli successivi, culminate nelle grandi adunate comuniste, naziste e fasciste, si assiste a una riconquista delle piazze, a un tentativo di ridare loro il significato di luogo di incontro collettivo. Mario Isnenghi in L’Italia in piazza fa partire dal 1948 in poi la riconquista degli spazi pubblici attraverso l’esperienza ludica e godereccia del banchetto politico intessuto di musica e discorsi, precorritrice delle successive Feste dell’Unità. Sto pensando all’idea di grande piazza rappresentata dall’area del porto antico di Genova progettata da Renzo Piano e alla modificazione dei costumi che essa può consentire. Certamente poi ci sono i malls americani, anonimi centri commerciali illuminati da accecante luce artificiale, queste non-piazze coperte, estremo prolungamento della logica dei supermercati, così come pure ci sono gli stadi di calcio, diventati luoghi di violenza organizzata e non più contenitori dell’aggressività collettiva attraverso il rituale festivo della partita. Infine abbiamo le piazze telematiche con le feste virtuali, con il divertimento onanistico che non abbisogna della contaminazione comunicativa, del contratto fisico, del contagio emotivo.

Sanguineti – Già nella diatriba tra Voltaire e Rousseau si intravvede la contraddizione nella borghesia tra chi vuole distruggere l’idea della festa fin nelle fondamenta e chi, invece, vuole conservarla rendendola suddita delle leggi del mercato. Voltaire, acerrimo nemico del sacro e del religioso, condanna sommariamente la festa, descritta come puro spreco di fronte alle esigenze di razionalizzazione della società mercantile. La razionalità nega il valore della festa che, intesa come disordine e animalità, non ha più senso nell’ideologia illuministica. Non viene disconosciuto il valore del riposo, ma nella festa vengono individuate le categorie dell’ignoranza e della bestialità che si oppongono alla ragione. Rousseau, pur rappresentando anch’egli in pieno le esigenze borghesi, ritiene necessaria la conservazione del fondo antropologico su cui la festa si basa. Egli propone una strategia diversa da quella di Voltaire; la festa non deve essere eliminata, ma secolarizzata. La festa deve essere affrancata dalla religione e dall’aristocrazia per diventare laica, e, in tal guisa, esprimere lo spirito del tempo. La rivoluzione francese farà proprie le idee di Rousseau attraverso la riforma del calendario, che diventa laico. I mesi cambiano nome e non sono più i santi ad essere ricordati, ma gli avvenimenti significativi della rivoluzione. Si festeggiano la presa della Bastiglia, le grandi costituzioni e la ragione diventa il preminente oggetto di culto e di consacrazione. Dalla rivoluzione in poi ci saranno due calendari paralleli che convivranno conflittualmente, dando origine alle feste civili e alle feste religiose. Il culmine della laicizzazione sarà costituito dalle feste belliche; si festeggeranno l’entrata in guerra, la vittoria, le forze armate, ecc. Non solo la festa diventa laica, ma assume in sé i valori di vittoria e di forza dello Stato, che sono antitetici rispetto a quelli cristiani di salvezza, di conciliazione, di carità. Ancora oggi viviamo in un regime di compromesso in quanto facciamo riferimento a un doppio calendario che ha forti residui sacri, ma sempre più laicizzati. Il Natale viene convenzionalmente festeggiato anche da chi è laico; ai bambini Gesù Bambino porta i regali, come fa Babbo Natale. La vera festa della società contemporanea è, però, rappresentata dalla vacanza, dal prendersi le ferie. È sintomatico l’equivoco presente nella parola feria. I giorni feriali sono tutti i giorni, perché nel calendario religioso tutti giorni sono festivi, in quanto dedicati a uno o più santi. Nel calendario laico non ci sono santi; i giorni sono lunedì, martedì, mercoledì, giovedì venerdì e conservano nomi di origine pagana, esclusi il sabato e la domenica, che acquistano un significato immediatamente religioso: per gli ebrei al sabato e per i cristiani alla domenica viene festeggiato il giorno del Signore.

Schinaia – La tristezza domenicale e l’impossibilità di fare festa sono un tema centrale della letteratura moderna; penso alla poesia Natale di Giuseppe Ungaretti, ma soprattutto a Il sabato del villaggio di Giacomo Leopardi. Nell’evento festivo vengono introdotti i temi della solitudine, dell’incomunicabilità, della malinconia, dell’alienazione, che possono essere vissuti come i precursori della depressione festiva, malattia tipica dell’età moderna. Con la psicoanalisi kleiniana soprattutto è stata introdotta nella tecnica l’interpretazione, talvolta abusata, dei movimenti emotivi riferiti alla separazione, in relazione all’interruzione delle sedute del fine settimana. Dopo le cinque sedute analitiche settimanali, il week end non rappresenta un momento di svago, non è la festa, ma diventa nel transfert l’attualizzazione di sentimenti di dolore, disperazione, controllo, rabbia, delusione, legati a separazioni antiche.

Sanguineti – La festa tradizionale, facendo riferimento al sacro, implica l’orgia, l’estasi, il delirio. L’autentico modello festivo è il modello orgiastico in continua opposizione al divieto istituzionale, ma mai totalmente censurato dall’istituzione. Bataille ha descritto la tendenza allo spreco e al dispendio di energie insita nella festa: si mangia fino a scoppiare perché non si mangia per nutrirsi, ma per avvertire intense sensazioni di pienezza e di esaurimento delle forze vitali; si beve fino a rotolarsi per terra ubriachi; i rapporti sessuali sono indiscriminati, promiscui e durano fino allo stremo; ci si droga senza ritegno. Semel in anno licet insanire; almeno una volta all’anno il delirio è assicurato fino in fondo. Nello Zibaldone, nelle Operette morali e in alcuni dei Canti più celebri si può vedere come il tema della festa, simbolo di un mondo conciliato, ossessioni Leopardi. Il passero solitario non partecipa ai giochi ed in sostanza è lo stesso Giacomo Leopardi che si sente isolato rispetto agli altri giovani di Recanati. Mentre i fucili sparano e le ferree canne festeggiano, il passero solitario diventa lui, che dal chiuso del suo palazzo comitale, solitario, sente un mondo contadino dove è ancora presente un residuo festivo. Il tema della malinconia, della caduta, secondo cui dalla festa si ricava un sentimento di perdita e non più di pienezza, viene toccato nelle Ricordanze (“Nerina morta non partecipa più alle feste, alle radunanze”) per raggiungere il culmine in Il sabato del villaggio. La vera festa è il sabato, cioè il giorno prima della festa vera. Il più felice giorno dei sette è quello dell’attesa in cui la festa viene immaginata, sperata, prefigurata. Alla domenica si pensa già noiosamente che si ritornerà alla vita di tutti i giorni. In sostanza, la festa non è mai in atto; nella festa leopardiana la felicità non può mai essere vissuta direttamente. O la felicità è memoria, ricordo del passato trasfigurato dallo sguardo nostalgico che rende dolce anche il dolore, oppure si configura nell’attesa del futuro che concretamente non si realizzerà mai, nella speranza che, raggiunta l’età della ragione, si trasformerà in illusione perduta.

Schinaia – Siamo nell’anno leopardiano e penso che sia molto utile collegare la caduta del sentimento della festività al pessimismo del poeta di Recanati, ma credo sia opportuno per approfondire le radici storiche della festa tornare indietro, ancora al passaggio dalla società rurale a quella borghese. Secondo Bercé, alcuni hanno visto nella festa un’avventura parossistica che serviva da sfogo a tutti i desideri insoddisfatti, a tutte le passioni represse nei giorni comuni. Altri vi hanno visto una rigenerazione in una gioiosa e breve tempesta degli istinti, un momento in cui la società si concedeva una ricreazione, una vacanza che la consolidava e collaudava le sue fondamenta. Altri ancora hanno visto nella festa una virtualità sovversiva sempre presente; la festa sarebbe un bisogno primario dell’essere umano e la sua forza sarebbe naturalmente al servizio degli oppressi.

Sanguineti – Per Bachtin la festa è la carnevalizzazione. Il Carnevale è il vero capodanno, il momento cioè in cui il ciclo può ricominciare da capo. La società borghese non può inserire al suo interno lo spirito carnevalesco, perché il tempo mercantile è un tempo che non prevede il ritornare, il ricominciare. Una volta usciti dalla cultura contadina, viene a mancare la dimensione ciclica del tempo. Di questa mancanza si lamenta Nietzsche quando propone l’idea dionisiaca dell’eterno ritorno: tutto si replica circolarmente, perché il progetto è quello di ritornare irrazionalmente alla partecipazione a una vita cosmica che consiste nella ripetizione continua. Bachtin identifica il festivo con il plebeo autentico, con il popolare, con il comico; nel momento carnevalesco-folclorico tutti valori si rovesciano: quel che stava in alto sta in basso, quello che era vivo è morto. Nella festa non domina più la ragione del monarca, del tiranno, del principe, ma il vero re è il folle che, delirando, evidenzia l’autenticità e che dall’ultimo gradino della gerarchia sociale passa al primo. Se il mondo si razionalizza, guai a immaginare, pur all’interno dell’estasi festiva, relazioni sociali dominate dalla follia. Il mondo borghese è un mondo di polizia, di ordine e non potrebbe in ogni caso dare spazio a quel delirio che, seppure in modi contenuti, controllati, pattuiti, trovava accoglienza nel mondo contadino e nelle sue feste.

Schinaia – Mi sembra che siamo giunti alla nascita della follia come disturbo psichiatrico e, insieme, alla nascita della clinica, all’organizzazione del grande internamento dei folli, giudicati inutili, devianti rispetto alla norma della razionalità produttiva della borghesia. Il ruolo sociale che il folle deteneva nella società rurale e che lo proteggeva dalla marginalizzazione viene negato nella società borghese.

Sanguineti – Michel Foucault ha descritto la nascita della clinica e del Manicomio in relazione all’impossibilità della società borghese di contenere al suo interno la follia. Nelle società primitive la follia e il delirio venivano valorizzati; potevano essere utilizzati per le loro qualità profetiche, magiche, sacre. Il pazzo aveva delle qualità uniche utilizzabili per il benessere collettivo; lo sciamano. Lo stregone poteva avere funzioni rilevantissime nei momenti decisionali della tribù, addirittura superiori a quelle di qualunque saggio del villaggio. Il potere della ragione, invece, relega il folle al ruolo di malato, lo medicalizza, lo emargina all’interno del Manicomio, spogliandolo di ogni funzione sociale.

Schinaia – La diagnosi di Foucault, ripresa in termini di lotta di classe da Basaglia, mi sembra un cuneo inserito nella cultura della società borghese. La follia diventa l’oggetto bizzarro che deve essere espulso perché non può essere inserito in nessun discorso, in nessuna logica. La follia che non può essere detta, la cui nominazione è proscritta, a cui è precluso l’accesso al linguaggio ufficiale, proprio perché continua a esistere e premere, rende la razionalizzazione borghese socialmente inaccettabile. Freud riprenderà questi temi in Totem e tabù, proponendo la necessità sociale della trasgressione consentita del divieto. Scrive Freud: “Una festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne di un divieto. Gli uomini si abbandonano agli eccessi, non perché sono felici per un qualche comando che hanno ricevuto. Piuttosto l’eccesso è nella natura stessa di ogni festa; l’umore festoso è provocato dalla libertà di fare ciò che è altrimenti proibito” (1912-1913, p. 144). La trasgressione viene legittimata, normata, ma anche recintata nel festivo, per cui la festa assume per Freud il significato di valvola di sfogo che permette di mantenere dinamicamente l’ordine borghese, che altrimenti imploderebbe.

Sanguineti – La motivazione forte che è alla base della crisi dei Manicomi come luoghi di cura è costituita dalla presa d’atto che essi non sarebbero in grado di contenere tutta la quota libera di follia presente all’interno anche della società capitalistica. La chiusura della follia è stata accompagnata da quella famosa repressione non necessaria di cui parlava Marcuse, per cui l’eccesso di repressione si è rovesciato in follia. Diventano pazzi tutti se il pazzo viene isolato e se le determinanti inconsce, le pulsioni aggressive che sono alla base della follia, anziché essere sublimate, vengono rimosse, negate. Oltre a Bachtin, bisogna citare Lanternari e il suo fondamentale testo La grande festa, in cui indaga sui rituali di Capodanno. Egli individua diversi Capodanni o Carnevali, intesi come inizi di un ciclo, con collocazioni e significati differenti nelle varie società. A seconda che la società sia basata sulla pura raccolta, sulla caccia e sulla pesca, sull’allevamento, sulla pastorizia nomade, sulla manifattura fin verso l’industria, si dà un differente rituale festivo che concepisce in modo originale il rapporto con la divinità. Un dio che sta nei cieli è incompatibile con la cultura contadina, che disporrà di divinità della terra che fecondino i campi e assicurino il raccolto. Dio starà nei cieli per una cultura di tipo pastorizio nomade, in cui si passa molto tempo a guardare in alto. La cultura ebraica, che unifica le divinità celesti in un’unica divinità è fondamentalmente una cultura di nomadi e pastori. Con l’accostarsi e l’integrarsi delle diverse culture, le società tentano una conciliazione: dove stanno i morti, in cielo o in terra? Sono ombre vane, sono da seppellire, sono da ardere? E le divinità?

Anche noi oggi conserviamo come relitti diversi modi di intendere il ricominciare della vita. Il 21 marzo giunge la primavera, si festeggia il Capodanno, si aspetta il duemila, ma i riti di passaggio connessi al ciclo calendariale sono molto deboli: i rituali di primavera sono pressochè assenti, il senso di artificialità nei festeggiamenti di Capodanno è forte, il duemila è solo un numero anche se fa riferimento ai duemila anni dalla nascita di Cristo. La messa in secondo piano della ciclicità ha a che vedere sia con la secolarizzazione della società, che con la mercificazione che prevede la produzione continua. Se tutto è merce, anche far festa è merce; ma questa concezione è in contrapposizione al dispendio antieconomico di energie ben legato all’evento festivo, di cui in alcune culture rurali si possono apprezzare sopravvivenze residuali. In un luogo a forte tradizione contadina, per la cerimonia di nozze di una figlia, per il suo abito nuziale, ancora oggi ci si potrebbe indebitare per un’intera vita, ma allora bisognerebbe chiedere prestiti alle banche, agli usurai e rischiare di restarne sopraffatti. Se si vuole sprecare, bisogna pagarne i costi. Lo spreco legato alla festa non è per il borghese un investimento sano che dia dei ritorni in termini economici.

Schinaia – Non certamente per riesumare antiche intransitività, quale il marxiano binomio struttura-sovrastruttura, ma penso che le modificazioni sociali ed economiche influenzino fortemente e direttamente le esperienze psicologiche, sia individuali che gruppali, venendone a loro volta da queste influenzate. L’impossibilità dello spreco, di cui parla Bataille in La parte maledetta, fa dell’esperienza emotiva della festa una sorta di coitus interruptus, in cui l’orgasmo viene continuamente differito fino a diventare inimmaginabile, un “vorrei ma non posso”, che riduce l’esperienza festiva a surrogato mercificato degli antichi vissuti e degli inconsci desideri a superficiale, artefatta, caricaturizzata rappresentazione dei bisogni individuali e sociali legati all’evento festivo. Paradossalmente la realtà d’oggi sembra avere preso alla lettera l’elogio del dispendio, senza rinunciare però ai dettami della ragione utilitaria, dell’accumulazione dei beni e si costituisce quindi come un mostro che assomma in sé il negativo dell’abbondanza, dello spreco, del lusso, dell’eccesso consumistico e il negativo dell’utilitarismo capitalistico.

Sanguineti – Esiste una simmetria tra l’esperienza erotica e quella festiva. In entrambi i casi ci sono i preliminari, il culmine orgasmico e, quindi, la caduta nella tristezza. “Post coitum, animal triste”, ma si tratta di una tristezza intrisa di una soddisfazione che allude al bisogno di riposo; si può dire: “non ne posso più”, “ho goduto fino in fondo”. Di tutt’altro segno è la tristezza frustrante di chi non ha fatto festa, non ha avuto orgasmo, non ha raggiunto la leopardiana felicità. Al posto della beata depressione che anticipa il sonno, della stanchezza che può essere accompagnata dal mal di testa, dal vomito, addirittura dalla morte, c’è la mancanza del vissuto inebriante, l’assenza della felicità. Leopardi prende a pretesto una festa sportiva, il gioco del pallone, che allora a Recanati era qualcosa di simile al gioco della pelota, per dire: “Nostra vita a che val? Solo a spregiarla”. Enfatizza l’avvenimento sportivo e, come per i popoli primitivi, lo fa diventare gara mortale. Se non c’è rischio di morte, non c’è orgasmo festivo; i riti festivi erano spesso sanguinosi e sanguinari e contenevano la sacralità del morire festosamente. Il cuore della corrida è rappresentato dal rischio mortale che corre il matador; se non ci fosse il rischio di morte, la corrida sarebbe truccata, diventerebbe uno spettacolo a pagamento e null’altro. Durante la Fiesta di San Firmino a Pamplona, in cui i tori corrono per le strade liberi di incornare, sbudellare, uccidere chi, avendo dato prova di coraggio e virilità, non è però sufficientemente veloce, agile e scaltro, è un residuo dell’originario binomio festa-rischio di morte, incistato nella società spagnola attuale. Lo sport è un’invenzione moderna; prima c’erano i giochi olimpici, i giochi istmici; non si capirebbe fino in fondo l’entusiasmo di Pindaro per i giochi, se non si pensasse che gli aristocratici attraverso i giochi dovevano dimostrare il loro valore, il loro coraggio fino a rischiare la morte. L’agonismo ha la stessa radice etimologica di agonia.

Schinaia- Il sessantotto reimmette all’interno della società capitalistica il tema della festa intesa come trasgressione alle regole del potere costituito, come libertà espressiva senza i vincoli del formalismo borghese. Lo slogan “L’immaginazione al potere” con la sua paradossale provocatorietà chiede conto delle esigenze infantili che nelle società primitive venivano ritualizzate e contenute negli eventi festivi. Ovviamente sarebbe banalizzante e antistorico ridurre lo spirito del sessantotto soltanto alla maniacale apoteosi dell’onnipotenza infantile, ma certamente le gioiose e bellicose manifestazioni di piazza, la liberalizzazione dei costumi sessuali, la contestazione dell’autorità genitoriale, sia a livello familiare che a livello sociale e politico, rappresentano la crisi dell’ideologia borghese e capitalistica, incapace di mediare fra esigenze pulsionali e necessità mercantili, per pattuire tempi e luoghi per una festa autenticamente liberatoria. Bercé in Fête et révolte sottolinea come questi due avvenimenti, la festa e la rivolta, insieme alla guerra, l’amore o il crimine siano sempre stati appannaggio delle giovani generazioni, perché richiamano la forza e l’entusiasmo. È dai temi del movimento studentesco e operaio del sessantotto, dalla rivolta contro ogni autoritarismo, dalla difesa dei diritti prima degli operai e poi di tutti i proletari e i sottoproletari, gli emarginati della società classista, che nasce la rivoluzione basagliana con la lotta per la reimmissione nel sociale del diverso, dello scarto, attraverso la chiusura dei Manicomi e la contestazione specifica dell’ideologia positivistica della psichiatria. A Trieste assistiamo alle prime feste in Manicomio e alla loro esportazione nelle strade della città. Si tratta di un tentativo, talvolta ingenuamente utopico, talvolta visionariamente prefigurante il futuro, di dare uno statuto sociale all’internato, valorizzando le sue capacità di socializzazione e trasformando i posti della segregazione in luoghi dell’incontro attraverso un’esaltante operazione di rovesciamento funzionale. Nulla a che vedere con le feste senza libertà che venivano organizzate in passato in Manicomio. Sappiamo di feste organizzate nei manicomi fin dal secolo XIX.  Il racconto Il ballo delle pazze di Maria Victoria Mas narra di una festa da ballo del 1885, organizzata alla Salpêtrière, ospedale diretto da Charcot, in cui per una notte si aprirono le porte del manicomio e gli infermi, vestiti con abiti dell’epoca e agghindati di tutto punto, diventavano oggetto di divertimento per l’alta borghesia dell’epoca.

Sanguineti – Il problema della festa in una comunità psichiatrica mi pare enormemente delicato perché, se si invitano i pazienti alla festa, si deve sapere che vengono esposti al rischio della frustrazione. In una società che nega lo spazio al festivo autentico non è possibile incitare un gruppo, tanto più un gruppo sociale fragile, all’orgasmo, all’orgia, in quanto si tratterebbe di un’operazione contraria a una visione realistica del mondo. Per realistica bisogna ovviamente intendere una visione razionale, adeguata a quella che è l’esperienza moderna dei rapporti sociali. Dall’opposizione fra festa socializzata e solitudine di massa, la società contemporanea spesso genera mostruosità quali le feste socializzate che diventano solitudine di massa. Un esempio è rappresentato dalle domeniche passate dalle masse tristi in enormi centri commerciali ad acquistare e accumulare merci, regali. Un tentativo di recuperare il momento orgiastico è rappresentato dall’uso della droga. Basti pensare al binge letteralmente all’abbuffata di cocaina da parte del cocainomane, oppure ai raves, a quelle feste in cui i giovani in preda all’ecstasy, ballano fino allo sfinimento. La mancanza di veri eventi festivi contribuisce alla costituzione di fenomeni quali la droga in discoteca, a cui fa seguito spesso la morte in automobile. I giovani cercano di fare quello che ormai non è più lecito fare; sono gli unici che, per noi inadeguatamente, tentano l’esperienza dell’orgia e dell’orgasmo. I giovani tedeschi che sfidano la morte in autostrada, andando in auto a folle velocità contromano non somigliano, se non alla lontana, al James Dean della corsa del coniglio nel film Gioventù bruciata; in questa sorta di delirio organizzato, rovesciano e carnevalizzano il mondo come in un residuo arcaico di rituali barbarici. Le orge della cultura nazista rappresentavano il recupero di temi quali l’istinto, la violenza, il sangue, la carne; infatti il nostalgico motto nazista era “sangue e terra”. Il problema con i pazienti psichiatrici consiste nell’aiutarli a vivere un’esperienza socializzante come la festa, proteggendoli dall’eccesso di frustrazione a cui inevitabilmente vengono sottoposti, perché già carichi di vissuti depressivi vissuti quotidianamente. C’è una quota di rischio nella partecipazione, a cui paiono emotivamente inadeguati. D’altronde mi sembra insensato, anti-terapeutico, oltreché difficilissimo creare elementi di socializzazione in nome della ragione per chi presenti problemi psichiatrici. Stimolare la creatività attraverso il dipingere, il fare musica, il ballare vuol dire dare spazio alle forze dell’inconscio, cercando però di convogliarle in un progetto terapeutico e riabilitativo in cui resta fondamentale l’incontro con gli altri.

Schinaia – Concordo sulla necessità di protezione e di cura per evitare il rischio di crisi, quando si progetta il passaggio da una realtà istituzionale chiusa e priva di stimoli a un circuito di interesse e desiderio, di incontri, di socializzazione. Per quanto difficile, è però un cammino di rianimazione istituzionale che va necessariamente percorso, se vogliamo valorizzare le potenzialità di simbolizzazione residue dei pazienti, non distrutte e consumate dall’istituzionalizzazione. Vorrei fare infine un’ultima annotazione su quello che si può definire analfabetismo emozionale soprattutto nelle giovani generazioni. I pazienti che oggi, per esempio, richiedono un trattamento analitico, danno la sensazione di non sapere riconoscere, nominare e discriminare i propri sentimenti, i propri affetti, le proprie emozioni (alessitimia). Credi che si possa dire che soffrono di una inadeguata, se non assente, percezione di sé che riduce drasticamente la possibilità di fare nuove esperienze emotive, comunicative a livello individuale, di coppia e di gruppo.

Sanguineti – I giovani generalmente non sono esigenti, si accontentano delle festicciole, perché neanche sanno che i bisnonni dei bisnonni ricercavano nelle feste l’estasi orgiastica. Fortemente repressi, impregnati di doverismo superegoico, autoritariamente educati al pudore, al contegno, alla censura delle emozioni, impauriti dal rischio del contagio, confondono i surrogati mercificati della festa con la festa vera e propria. Sono convinti che le orge sono quelle che gli antichi romani fanno nei film e non sanno che i popoli le praticavano nelle campagne fino a non molti anni orsono. Fa sensazione la crudeltà presente in alcuni rituali di iniziazione nelle caserme, non dissimili da quelli a cui fino a qualche anno fa erano sottoposte le matricole nelle università. La sopravvivenza residuale di riti barbarici all’interno di un mondo chiuso come quello delle caserme evidenzia la presenza, altrove repressa, di aggressività, di violenza, della distruttività dell’anziano che si scarica sul giovane nell’atavico conflitto generazionale che può diventare mortifero. La stessa circoncisione, sublimata come pratica religiosa, è in realtà un residuo di un rituale barbarico in cui il corpo viene segnato. Come del resto avviene nella body art in cui ci si deforma, nel piercing, nel ritorno del tatuaggio. Il ritorno del festivo, pertanto, riguarda fortemente la società contemporanea; i politici, gli amministratori, gli educatori non possono pensare soltanto a misure sanzionatorie, come togliere la patente ai giovani che guidano in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’influsso di altre droghe, ma devono riflettere su modalità nuove di reinserimento delle feste nel contesto sociale per ridare loro la storica contradditoria funzione che hanno sempre avuto.

[1] Psichiatra e psicoanalista con funzioni di training della SPI e full member dell’IPA

[2] Edoardo Sanguineti (1930-2010), poeta, saggista e critico letterario, è stato docente di letteratura italiana all’Università degli studi di Genova. Ne 2001 gli è stato conferito il premio Musatti.

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