Prendersi cura dell’istituzione per accompagnare il sogno dell’adolescente

di Cristiano Curto e Maria Francesca Natali

 

Abstract

Il nostro lavoro riflette sul ricco e complesso rapporto tra adolescente e istituzioni, a partire dalla lunga esperienza della Cooperativa Rifornimento in volo, la sua storia e le sue complesse trasformazioni. Uno dei focus della riflessione sarà l’articolazione in gruppi di lavoro, base di tutto il nostro lavoro clinico nelle sue diverse declinazioni; tale articolazione sostiene e arricchisce l’autonomia del singolo, garantendo e rafforzando l’appartenenza istituzionale. Emergerà l’importanza di concetti quale lo spazio psichico allargato e la sua funzione di terzo, la multifocalità, la mente gruppale, l’interistituzionalità. Affronteremo inoltre il tema della necessità del prendersi cura dell’istituzione in tutte le sue componenti. La riflessione teorica sarà accompagnata dalla presentazione di materiale clinico.

 

Questo lavoro nasce all’interno della riflessione sul rapporto tra adolescenza e istituzioni, tema al quale l’ARPAd ha dedicato le serate scientifiche del passato anno. Serate scientifiche che hanno visto uno scambio quanto mai ricco e appassionato da parte di colleghi impegnati da anni, a vario titolo, sul fronte del lavoro istituzionale con gli adolescenti.
Convinti che si tratti di un tema quanto mai attuale e fecondo se, come afferma Gianluigi Monniello, “il lavoro clinico con l’adolescente interroga e arricchisce la questione della vita istituzionale”, ci siamo quindi fermati a riflettere sul nostro lavoro istituzionale per come è andato trasformandosi a partire dalla fondazione della Cooperativa, più di vent’anni fa.
La Cooperativa Rifornimento in volo è stata fondata nel 1996 da Giovanna Montinari insieme ad un gruppo di soci ed allievi dell’ARPAd. Un gruppo di colleghi di diverse professionalità (psicologi, neuropsichiatri infantili, educatori) che provenivano da differenti esperienze di lavoro, nel pubblico e nel privato, colleghi appassionati alla psicoanalisi dell’adolescenza, in sintonia nel sentire “la responsabilità eccitante di partecipare a cambiamenti organizzativi e organizzazioni istituzionali nuove e scientificamente avanzate” (Montinari 2006).
Pensiamo, con Correale (2007), che “in ogni istituzione è presente all’origine una potente emozione fondatrice”, un’idea che nutrirà anche le trasformazioni, i cambiamenti, gli arricchimenti che inevitabilmente l’istituzione si troverà a mettere in campo, a gestire e a governare. La nostra “potente emozione” fu declinata, all’inizio, nel pensare la Cooperativa come una “bottega d’arte” (Montinari 2006), un laboratorio artigianale all’interno del quale poter accogliere la sofferenza mentale degli adolescenti in modo integrato. Un servizio per adolescenti, giovani adulti, genitori, operatori dei servizi territoriali e quanti fanno parte del contesto dell’adolescente, una struttura “sufficientemente libera e flessibile al fine di non perdere la dimensione ideale di ricerca e di studio necessaria ad esplorare nuove frontiere di intervento” (Ibidem). L’impegno fin dall’inizio è stato quello di coniugare ed integrare impegno sociale e psicoanalisi dell’adolescenza, perché si nutrissero e si arricchissero vicendevolmente. Il nome che scegliemmo esprimeva la consapevolezza e l’auspicio che un accoglimento tempestivo della sofferenza dell’adolescente (rifornimento) potesse permettere di riavviare il suo sviluppo maturativo e il suo percorso di soggettivazione bloccato o interrotto (in volo).
Negli anni questa piccola struttura artigianale, fondata su solide basi teoriche e cliniche, è andata crescendo nel suo lavoro clinico, nell’impegno istituzionale e interistituzionale e nel numero dei soci e dei collaboratori che a vario titolo ne fanno parte [1]. Quello che all’origine era un centro clinico che accoglieva, nella storica sede ubicata per scelta a livello della strada, un piccolo numero di pazienti dei quali si prendeva cura sostenuto da un vivace pensiero gruppale si è progressivamente ampliato, fino ad essere attualmente una istituzione dall’architettura complessa e articolata, sempre più aperta alla realtà cittadina e all’accoglimento della sofferenza mentale degli adolescenti e dei loro contesti. Questo apre continuamente a nuove sfide cliniche e a sempre più impegnative responsabilità.
Ci piace immaginare la nostra Cooperativa, sulla scia del pensiero di Gianluigi Monniello, come un luogo fisico e mentale, uno spazio/tempo, un “sito analitico allargato” che sotto la spinta di nuovi bisogni e del desiderio di rispondere ad essi si allarga e diventa più complesso. Uno spazio in grado di offrirsi come luogo di appoggio pulsionale e di pensiero” (2005). Bisogni e desideri dei giovani pazienti; bisogni e desideri di tutti coloro che vi lavorano con grande impegno. Un luogo capace di accogliere il disagio psichico dell’adolescente costruito con passione, alla cui porta bussano continuamente nuovi potenziali inquilini ai quali poter offrire ospitalità e con i quali lo scambio possa mantenersi vivo e creativo. Un luogo rispetto al quale gli operatori vivano un forte senso di appartenenza perché costituito da ogni apporto e contributo creativo personale del singolo.
Come ogni luogo che cresce e occupa spazi più ampi spingendosi in territori sempre nuovi, la Cooperativa ha bisogno di continua manutenzione, aggiustamenti, riparazioni o addirittura lavori di ristrutturazione o nuove costruzioni. Si tratta di un grande sforzo creativo che necessita del contributo di tutti, che vive momenti di continuità e discontinuità, empatia e conflittualità. Ci è sempre più chiaro che l’ampliarsi della nostra istituzione in un insieme sempre più complesso implica un’attenzione ed una cura attenta non solo nei confronti dei pazienti ma anche del gruppo degli operatori e della Cooperativa nella sua interezza.
Cosa comporta infatti essere un servizio, accogliere un adolescente sofferente all’interno di una istituzione del privato sociale? Quali le differenze rispetto al lavoro privato o al lavoro in una istituzione pubblica? Cosa cambia? Cosa rimane invariato? Ovviamente l’identità professionale del terapeuta, il setting interno. Però l’appartenenza ad un gruppo istituzionale, la necessità di seguire regole stabilite, più o meno definite o rigide, il lavorare insieme, sono elementi significativi da considerare per le dinamiche che presentano, così come gli aspetti economici. Come vengono declinati nell’incontro tra terapeuta e paziente? Pensiamo ad esempio all’articolazione interna tra proprio stile e appartenenza ad un gruppo. Specularmente, anche per l’adolescente e per i genitori c’è una grande differenza tra l’essere accolti in una istituzione o in uno studio privato. L’istituzione è per definizione e per natura un luogo che dovrebbe garantire maggiore stabilità e sicurezza. “L’utente adolescente, per la sua normale tendenza a proiettare i suoi introietti originari su oggetti nuovi, è particolarmente attento e sensibile all’autenticità e all’affidabilità degli interlocutori che si offrono.” (Novelletto 2005). Lo spazio psichico istituzionale si connota, come ben sappiamo, come terzo, con funzioni organizzative per lo psichismo del paziente ma anche per quello del terapeuta. In un servizio istituzionale, possiamo sentirci più liberi perché sostenuti dal gruppo? Allo stesso tempo il gruppo può incarnare aspetti superegoici, giudicanti. Del resto in una istituzione è probabilmente più vivo il bisogno e la disponibilità a “modificare il proprio assetto concettuale e le proprie strutture organizzative di pari passo con i bisogni sociali e la sofferenza psichica di nuova comparsa” (Ibidem).
Scrive Anna Ferruta (2016) nel suo lavoro “L’istituzione necessaria”: “Questa complessità dell’istituzione richiede all’individuo di prendersene cura, come accade per il corpo che silenziosamente lo tiene isolato e in contatto con gli altri. Nel momento in cui l’individuo riconosce il patto narcisistico che lo genera (essere per sé il proprio fine e prendere posto nell’insieme come soggetto nel gruppo per il gruppo), allora l’istituzione si configura come necessaria componente della propria vita”. E ancora: “Il pluralismo ci chiede di impegnarci responsabilmente nel perseguimento di equilibri provvisori tra valori differenti, nella definizione di priorità mai definitive, nella minimizzazione dell’intensità dei conflitti inevitabili, promuovendo e conservando un delicato equilibrio che è costantemente minacciato e che richiede costanti riparazioni”.
Il lavoro in gruppo, il confronto, la condivisone profonda dell’incontro con l’adolescente attraversa trasversalmente il lavoro in Cooperativa. Ogni azione clinica, a partire dai primi colloqui di accoglimento che aprono alla ricerca di un intervento personalizzato sul singolo caso, (psicoterapia, gruppo di parola, laboratori individuali e di gruppo, compagno adulto, interventi educativi o nelle scuole) viene condiviso e discusso in gruppi più o meno numerosi. Alcuni sono gruppi particolarmente complessi perché composti da colleghi con livelli di formazione diversi. Questo comporta che il gruppo ricopra differenti funzioni e sia in grado di rispondere a diversi bisogni, è un gruppo di lavoro ma anche un gruppo formativo. L’articolazione in gruppi garantisce l’appartenenza istituzionale e allo stesso tempo l’autonomia del singolo. La mente gruppale sostiene l’investimento del singolo, si propone di essere rispecchiante, di accogliere le risonanze individuali nell’incontro con il paziente, sostanzia la trasmissione della nostra cultura istituzionale. Sottolineiamo con Monniello che “Il lavoro istituzionale ha il vantaggio di favorire l’articolazione tra trattamento, formazione personale permanente e ricerca”. D’altra parte viviamo quotidianamente anche la complessità del rapporto tra il singolo e il gruppo e la sofferenza spesso presente nei legami istituzionali (difficoltà nell’accettazione dei limiti, vissuti di passivizzazione, ambivalenza, disillusione, idealizzazioni, mantenimento rigido dei ruoli, paralisi del pensiero): è importante sforzarsi di dare un senso a tale sofferenza, così come ci impegniamo insieme all’adolescente a dare un senso alla sua sofferenza mentale. Senza perdere quell’ “atteggiamento di valorizzazione della vitalità del presente” senza il quale, ci ricorda Monniello, è difficile occuparsi di adolescenti.
Compito estremamente delicato è poi quello di integrare nella mente l’istituzione in quanto struttura stabile nata da una particolare storia e che orienta le scelte, e l’organizzazione (la divisione dei compiti, l’attribuzione delle cariche, la distribuzione dei ruoli) che necessariamente l’istituzione deve darsi ed essere in grado di modulare nel tempo per rispondere nel modo che ritiene più efficace ai bisogni dell’adolescente. Istituzione e organizzazione sono aspetti strettamente legati che dovrebbero essere tenuti in equilibrio, essendo l’istituzione portatrice della matrice ideale e affettiva e della cultura istituzionale che l’organizzazione dovrebbe declinare e valorizzare. Gli inevitabili disequilibri che nel tempo si vengono a creare rappresentano momenti critici che se accolti e compresi possono però rappresentare momenti evolutivi importanti. Come scrive Ferro (1996): “La stessa sofferenza istituzionale può essere così stimolo per i membri del gruppo a cercare soluzioni per soffrire di meno ed operare meglio.”
La modulazione dell’organizzazione – che all’istituzione dà forma, sostanziandone la rappresentazione interna ed esterna – è di grande importanza. Il rischio che in alcuni momenti gli aspetti organizzativi tendano a prevalere, quasi autonomizzandosi dall’istituzione, questo rischio aumenta per la pressione dell’aumentare delle richieste e dalla loro crescente complessità, sotto la spinta di quelle situazioni che rischiano di far saltare i contenitori. Pensiamo ad esempio all’accoglimento e alla gestione degli adolescenti estremamente sofferenti, al lavoro con le istituzioni pubbliche, all’incontro con genitori in grande difficoltà, agli interventi di rete. La stabilità della cornice organizzativa rappresenta in questi casi la possibilità di ripararsi e contenere l’angoscia scaturita dall’incontro con l’altro. Del resto, come sottolinea Correale, “…l’enfasi… sull’organizzazione esprime un tentativo di controllare la preoccupazione, che nasce dalla profonda responsabilità individuale, che mettono in moto i casi complessi e quindi la grande importanza che assumono i transfert in queste situazioni” (2007).

Asia, ovvero un accoglimento impossibile (16 anni) di Maria Katiuscia Zerbi

È la madre di Asia [2] a contattare il Servizio di Accoglimento della Cooperativa alle soglie della pausa natalizia. Chiede informazioni sulla possibilità di far seguire la figlia, come da suggerimento di due colleghi a noi ben vicini del territorio ASL di loro appartenenza da cui la ragazza è in dimissione. Aggiunge, tuttavia, che sono in procinto di partire per le vacanze. Chiede aiuto, rendendosi contemporaneamente non disponibile. Dopo aver raccolto telefonicamente le informazioni utili e sufficienti ad una prima analisi della situazione, discutiamo la richiesta per la prima volta nel primo livello di discussione clinica della Cooperativa, e cioè la riunione di Accoglimento del mercoledì, alla presenza di tutti i referenti d’area, dei soci e dei collaboratori. Primo livello di integrazione ma anche di differenziazione. Conveniamo così circa l’opportunità di ricontattare la donna per curare l’avvio rimandandolo ad un tempo migliore, senza interruzioni imminenti. Nel frattempo, una delle coordinatrici cliniche avvia un contatto con i referenti istituzionali esterni per avere maggiori ragguagli sulla richiesta pervenuta, iniziando così a predisporre un luogo – nella mente dei curanti e nei dispositivi della Cooperativa – in cui accogliere la ragazza.
A fine gennaio la madre ci ricontatta. I tempi concreti sono assolutamente in linea con quelli concordati, meno in linea sembrano essere quelli interni legati alla maturazione emotiva e consapevole della richiesta. Parla a “mezza bocca” al telefono, dice e non dice, è evasiva ed intrusiva al tempo stesso, mistifica le informazioni, confonde, comunica che lei svolge una professione che la porta ad essere in contatto con gli adolescenti e che quindi li conosce, sa come sono fatti ragione per cui ha una sua idea circa la figlia. Lascia trapelare una forte difficoltà ad affidarsi e a far si che la ragazza possa accedere liberamente ad uno spazio terapeutico.
In realtà, la situazione della figlia è ben più grave di quella descritta dalla madre: era arrivata al Servizio sanitario dopo un ricovero per sintomi dissociativi legati all’abuso di cannabis, atti autolesionistici, difficoltà alimentari e scarso controllo degli impulsi. Nel corso del tempo avevano fatto capolino fughe da casa ed un avvio della sessualità che i genitori, per negazione o per omertà, sembrano ben lontani dal considerare come elementi rilevanti nella loro coscienza. In sede ASL erano stati offerti dei colloqui di chiarificazione, purtroppo interrotti a causa del trasferimento di uno dei colleghi. Predisponiamo così un avvio con la proposta di attivazione di un setting parallelo in cui io avrei incontrato la ragazza e una collega avrebbe visto i genitori nella doppia funzione di terapeuta e coordinatore del caso.
Non poche, nelle difficoltà di avvio, le contrattazioni sulla proposta del giorno ed orario della seduta.
Finalmente incontro Asia.
Aprendo la porta trovo una ragazza alta, formosa, con un corpo imponente e sebbene forse un po’ in eccesso di peso non disturbante. Stacca subito dalla bocca una borraccia dalla quale beve ripulendo l’acqua in eccesso con il polso; con fare confidenziale e caldo mi saluta porgendomi la mano.
Entra superandomi per poi voltarsi di nuovo come a ristabilire un contatto con me, con un grande e bel sorriso mi chiede dove andare.
Noto subito una certa bellezza in Asia: seppure il corpo sia quello di una ragazza in cui l’adolescenza è esplosa, il suo sguardo e la sua mimica facciale e posturale hanno un non so che di infantile, a volte di lento e goffo, di chi prova a raggiungere con i movimenti del corpo dei pensieri che sembrano poterle sfuggire: le capita, mentre prova a formulare e verbalizzare un pensiero, di rallentarsi, di rivolgere lo sguardo verso l’alto e di usare le mani per provare a spiegare ciò che per lei è inspiegabile. Riconosce di fare delle cose “strane” senza rendersene conto, poi realizza e tenta di interrogarsi, senza successo, a riguardo. Dietro i capelli fucsia, il rossetto viola e la grande felpa anch’essa dai colori fluo, mi sembra di intravedere qualcosa di meno artificiale: la sua disponibilità e il suo bisogno di entrare in un contatto, seppure ancora indifferenziato, con l’altro. Semplicemente il bisogno di essere accolta in uno spazio-mente capace di reverie.
Al lato opposto, si posizionano i suoi genitori: che non solo non vedono, non riconoscono le serie difficoltà della figlia ma sembrano non capirle. La ragazza stessa nutre dei dubbi circa gli strumenti cognitivi della madre, figura genitoriale con la quale fa più fatica a rapportarsi, ma che è anche quella a lei più vicina. Io stessa sono stupita infatti che la madre, dopo la presentazione telefonica in cui si era mostrata così implicata nella gestione della figlia, non si fosse presentata a questo primo appuntamento anche solo per accompagnarla. Secondo segnale (il primo era l’incongruenza tra la richiesta e il sottrarsi all’aiuto), nella mia mente, di uno slegamento tra le azioni portate avanti nella realtà e la possibilità di significarle.
Saluto così Asia dopo il primo colloquio dandole appuntamento alla settimana successiva [3].
Il giorno dopo, in un orario non consono, ricevo un messaggio whatsapp della madre che mi informa circa lo stato influenzale della figlia e dei rimedi fai-da-te da lei (madre) messi in atto. Rimedi che si inseriscono non solo nella cura fisica ma intrudono lo spazio relazionale e sentimentale della ragazza a sua insaputa. Rifletto sulla valenza del messaggio e sulla modalità disarmonica e disfunzionale, che non tiene conto delle distanze (o vicinanze), con cui la madre, apparentemente premurosa, invade lo spazio della figlia. Rispondo, dopo un certo lasso di tempo, al messaggio condividendo e riconoscendo l’importanza delle sue comunicazioni alle quali sarebbe bene dedicare una giusta riflessione, provando a convogliare il dialogo verso la collega con cui è stato predisposto uno spazio per lei e il marito. Spazio che purtroppo, significativamente, non verrà mai accettato: riescono a svolgere a stento due incontri caratterizzati da riluttanza e superficialità.
Arriviamo così al secondo incontro con Asia, la quale come un fulmine – per me – a ciel sereno squarcia il cielo della seduta mettendomi a conoscenza di un suo segreto inconfessabile: i suoi incontri sessuali, incestuosi e perversi. Incontri in cui si fa sottomettere e umiliare. Passa bruscamente dal descriversi come una ragazza sicura di sé, a cui piacciono le pratiche sessuali estreme ed interessata agli aspetti puramente carnali nell’incontro con l’altro sesso, al vissuto di essere una poveraccia che va col primo che incontra perché la portata dei suoi impulsi sessuali è così potente e dirompente da non consentirle mediazioni e contrattazioni di nessun tipo. Piange addolorata dalla violenza con cui vive l’impellenza del suo bisogno. Passa dall’essere Everest, il punto più alto della terra al sentirsi Fossa delle Marianne, il punto più profondo.
Da questa comunicazione in poi inizia a cercare la mia presenza tra una seduta e l’altra. Mi scrive di notte le sue intenzioni suicidarie e mi inoltra i messaggi che invia al ragazzo che più l’ha fatta soffrire. Sembra comunicare il bisogno di un contenitore mentale senza il quale non riesce a pensare. Offro prontamente una intensificazione dello spazio di ascolto, per creare un argine, una diga alle esondazioni che vive.
Nel frattempo il mio raccordo con la coordinatrice del caso diventa sempre più frequente. Inoltre, la collega intesse uno scambio ravvicinato con l’inviante, per rimettere in campo la presenza necessaria e imprescindibile di un riferimento istituzionale, per contenere gli agiti genitoriali e il rischio di minimizzazione del malessere della ragazza. C’è bisogno di fare rete per offrire un paracadute mentale ad Asia. Ci convochiamo nel più stretto giro possibile ad un incontro, come a voler testimoniare con la presenza corporea l’istituzione di un setting – intra ed inter istituzionale – “responsabile” (Ferruta 2011). Co-costruiamo una strategia di gestione del caso in cui in maniera attiva il Servizio avrebbe ricontattato i genitori e visto la ragazza per governare la gestione farmacologica lasciata in balia della ragazza stessa (si procurava autonomamente psicofarmaci, regolandone altrettanto autonomamente la posologia) per sensibilizzare/allertare i genitori circa la gravità. Da parte nostra avremmo ritentato una presa in carico genitoriale e io avrei continuato a garantire lo spazio bisettimanale. Questa strategia aveva tra l’altro lo scopo di valutare la trattabilità e la sostenibilità e di garantire, attraverso una presa in carico integrata, la possibilità di preservare uno spazio d’ascolto in cui Asia potesse sentirsi accolta, tutelata e non abusata.
Pensavamo che un gruppo di lavoro così composto potesse rappresentare lo strumento più idoneo per raccogliere e significare i contenuti profondi della paziente, gestendo anche quegli aspetti che possono non essere raccolti da singoli operatori o attraverso singoli interventi (Curto et al. 2018). Un contenitore in grado di contenere non solo le dinamiche tra istituzioni ma anche quelle intra-istituzionali. La possibilità, dopo i primi due colloqui, di condividere il caso con il gruppo di discussione allargato, ha permesso a terapeuta e coordinatore di potersi successivamente “raccogliere” intorno al caso in maniera più intima e protetta, senza correre il rischio di agire (dimenticando) l’inscrizione del caso nella dimensione di un contesto più ampio fatto di regole proprie (la responsabilità legale del caso). È necessario unirsi prima di separarsi veramente (comunicazione personale di G. Montinari), o, come direbbe Bion: può esser dimenticato solo ciò che è stato prima pensato (1962).
Alla stregua di questa affermazione potremmo dire che la possibilità di muoversi, su livelli trasversali di cura è stata resa possibile solo dalla fiducia reciproca, sia personale che di funzionamento dei diversi dispositivi, all’interno di una dinamica che garantisce appartenenza istituzionale e indipendenza relativa dei soggetti che ne fanno parte (Ferruta 2016).

Compiti e funzionamento istituzionale

Il primo compito di un’istituzione, qualunque sia il suo mandato sociale, è quello di curare e studiare sé stessa, analizzando gli obiettivi, le funzioni, i mezzi e i compiti che la definisco, senza perdere di vista le tensioni presenti nella comunicazione e nelle relazioni interpersonali tra i suoi membri (Bleger 1996). Ogni istituzione è infatti composta da gruppi umani: quelli che si costituiscono in modo spontaneo, sulla base di alleanze consce e inconsce tra colleghi, e i gruppi formali costituiti per esigenze di lavoro. Un contenitore che, nell’ambito della salute mentale, si riempie di “reti transferali” che non riguardano solo il rapporto tra il paziente e il terapeuta, tra l’individuo e l’istituzione (transfert istituzionale), ma anche il rapporto tra gli operatori.
Il pensiero istituzionale supera i limiti spazio-temporali imposti dai setting, siano essi legati ai dispositivi di aiuto che costituiti dagli operatori nei differenti gruppi di lavoro. Il pensiero dell’istituzione si sviluppa su un tempo continuo ed è caratterizzato da un’architettura complessa che vede al suo interno: il pensiero e le fantasie dell’operatore sull’istituzione, il pensiero dell’istituzione sull’operatore, rispetto al quale l’istituzione individua percorsi e ruoli, e il meta-pensiero istituzionale che contiene e dà senso ad ogni cosa che avviene all’interno di essa, in particolare rispetto alle relazioni tra gli individui e ai gruppi che la compongono.
Un “capitale umano” che determina una complessità e che richiede una cura costante, poiché il benessere degli operatori e l’organizzazione del loro lavoro rappresentano requisiti necessari affinché l’istituzione possa assolvere al meglio al proprio compito (Novelletto 2009).
In parallelo alle tesi di Novelletto, Cahn (2002) fra tutti in Europa, con il suo testo “La fine del divano?”, ha sostenuto la necessità, sia in sede privata che istituzionale, di trovare dispositivi di aiuto “diversificati” in grado di intercettare nuove forme di malessere e di potenziare le capacità di accoglienza e di ascolto della psicoanalisi. Dispositivi che, in conformità alla tendenza naturale dell’adolescente a proiettare parti di sé sul mondo esterno, consentono di distribuire l’angoscia su più operatori e che possono offrire occasioni di transfert multipli (Jeammet 1992).
Questa ricerca rappresenta una linea di indirizzo che ha caratterizzato il nostro gruppo di lavoro fin dalle sue origini e che oggi ci consente di disporre di una serie di dispositivi clinici commisurati alle diverse esigenze dei nostri pazienti (Cordiale, Montinari 2012).
Si tratta di un argomento più che mai attuale, se pensiamo alle nuove forme di malessere, alle psicopatologie emergenti, in particolare tra gli adolescenti che ci provocano nella ricerca di nuovi vertici esplicativi che possano leggere tali fenomeni non più solo come derivati individuali ma che possano anche collocarli all’interno di uno spazio-tempo trans-personale, anche virtuale, caratterizzato da giochi e scambi identitari complessi (Margherita 2016).
Si pensi alle difficoltà a raggiungere nei rifugi della loro mente gli adolescenti autoreclusi o a trovare un modo per aiutare gli adolescenti disregolati a sviluppare una funzione contenitiva o, anche, all’annoso problema delle doppie diagnosi.
Forme di sofferenza che faticano a trovare un’adeguata collocazione nell’attuale organizzazione dei Servizi, che tende a suddividere la sofferenza mentale per categorie o per età.
Pensiamo sia necessario costruire gruppi di lavoro a geometrie variabili che possano ricomporre l’attuale compartimentazione dei servizi di salute mentale.
Non potendo rimanere indifferenti, come Antigone di fronte a Creonte, ci siamo trovati impegnati -per amore o per forza- a rintracciare una nostra possibile collocazione all’interno di una “terra di mezzo”, a superare strettoie istituzionali e limiti disciplinari. Impegnati a mantenere una posizione di equilibrio senza mai pensare di poterci sostituire al ruolo fondamentale dei Servizi, ma cercando di lavorare insieme a loro per accreditare un modello fondato sull’interdipendenza e sulla complementarietà dei ruoli e delle funzioni.
Uno scambio che ci arricchisce reciprocamente grazie alla possibilità di integrare più vertici osservativi e che si basa su una metodologia multifocale e sul lavoro integrato tra gli operatori coinvolti.
La ricchezza e la complessità di questo scambio richiede la capacità dell’operatore di riconoscere il proprio ruolo e la propria funzione nel gruppo. Essere consapevole del valore del proprio contributo nel gruppo consente all’operatore di lasciarsi andare creativamente al flusso associativo e di lasciarsi sorprendere dal contributo dell’altro (Barale 2014).
Ogni area di lavoro della cooperativa è infatti organizzata in dispositivi di gruppo per la supervisione e il monitoraggio clinico delle situazioni in carico. Setting “rigorosi” (Ferruta 2016) grazie ai quali è possibile sospendere l’azione e riflettere insieme. Nel gruppo-terzo-istituzione, la mente dei curanti diventa il luogo in cui il mondo interno dell’adolescente e le sue relazioni con il mondo esterno possono essere viste e pensate (Curto et al. 2018).

Donatello (20 anni)

Dalla distruttività al ping pong, dalla frammentazione alla lenta ricomposizione. I dolori, le rabbie e il travaglio psichico dell’adolescenza di Donatello hanno messo alla prova diversi dispositivi interni ed esterni alla cooperativa, cui sono state affidate le speranze di tessitura di un percorso a tratti violentemente discontinuo.
Conosco Donatello ai suoi 12 anni, quando le crisi distruttive domestiche (inizialmente nei confronti dell’arredamento di casa) che da qualche tempo spaventano i genitori, accompagnate da un funzionamento cognitivo al limite, li spingono a ricercare aiuto con la fantasia di far “aggiustare” i problemi del figlio [4]. Poco dopo lo convincono ad accedere a un laboratorio individuale con me, che lui accetta a patto di giocare senza dover parlare. Dal nostro primo incontro mi colpisce la grande inibizione che gli rende pressoché impraticabile lo scambio verbale – salvo limitarsi a rispondere con monosillabici “sì sì” sigmatici – mentre mantiene una tensione nell’espressione del volto contrita e spaventata.
Cominciamo così a vederci con cadenza settimanale e dal momento che rifiuta gli altri giochi a nostra disposizione, trascorriamo tutto il nostro tempo a giocare a ping pong. Non mi guarda quasi mai in volto, non vuole ingaggiare partite con me, forse temendo le difficoltà di gestione della sua forza, forse temendo un confronto col maschile che possa sopraffarlo. Vuole soltanto palleggiare insieme, mettendo così in “gioco” il suo corpo ingombrante oltre i limiti dell’obesità. Quando col tempo gli propongo una pausa a metà per rifocillarci con un bicchiere d’acqua, che inserisce la possibilità di un breve scambio verbale a sua scelta, si smorza a tratti l’espressione del volto impassibile che mantiene sempre. Parliamo di calcio, di scuola e degli amici con cui si vede per giocare con la playstation. La collega mi riferisce che nonostante la madre insista con lui per sapere cosa accade nel nostro tempo, al quale lui non manca mai, Donatello non vuole farle sapere nulla. E a me non fa alcun cenno rispetto alle vicende familiari. Sembra il suo primo tentativo di costruire una traccia segreta e incontaminata dalla sua stessa rabbia violenta, smossa dalla montata pulsionale e reazione all’asfissiante controllo e invadenza materna, non arginata dal filtro di un paterno quasi inconsistente.
Dopo un’altra crisi domestica Donatello spinge il padre a farsi accompagnare in bicicletta di domenica mattina fino alla cooperativa, nella speranza di trovarmi e rientrare in quella nostra oasi, ora terreno di partite in cui è potuta entrare la competizione, la sua forza e la fiducia che possa non essere distruttiva. All’inizio temeva di schiacciare la pallina troppo forte, finché allenandolo a provarci, sembra iniziare a misurare la forza con la precisione del colpo.
Una nuova crisi iniziata d’estate però irrompe, interrompe e stravolge. Nel pieno di uno di questi episodi la madre, che sovente chiama il 118, mi telefona urlando disperata il mio nome davanti a lui e chiedendomi cosa deve fare con il figlio, smascherandolo così ai miei occhi nel suo tentativo di costruire un’area privata. A settembre non riprenderanno né il laboratorio (Donatello scompare senza farsi più vivo prima di molti anni) nè il percorso scolastico, dopo l’esame di terza media. Al loro posto, insieme all’impostazione di una robusta terapia farmacologica, i Servizi optano per l’inserimento in un centro diurno, dove inizia una nuova epoca della sua vita.
Donatello fatica ad accettare il nuovo contesto che anni più tardi, pur riconoscente dell’utilità di quest’esperienza di crescita, definirà come qualcosa che lo ha fatto sentire “diverso” dagli amici che frequentava e da quello che un ragazzo dovrebbe vivere a quell’età. Sono gli anni in cui ricerca situazioni più al limite, con grandi difficoltà di regolazione: a piccole evasioni dalla struttura, aggiunge l’uso di alcol e droghe leggere, attraverso cui si spinge a un primo approccio sessuale con una ragazza, anch’essa conosciuta ai Servizi, con la quale verrà ritrovato in stato confusionale in un parco nottetempo.
Seguirà un periodo di ricovero e, progressivamente, un maggiore inserimento nelle attività del centro diurno, cui si affiancherà anche il dispositivo del compagno adulto. La scarsa tenuta dell’Io prevale sull’iniziale accettazione della nuova esperienza, così come accade anche per i tirocini lavorativi che gli vengono proposti: Donatello interrompe tutte le esperienze riproponendo il modello traumatico della discontinuità.
La conflittualità con la madre, mentre il padre che si mantiene in una posizione di sfondo, permane piuttosto accesa e spinge i curanti a inserirlo in una residenza protetta con altri ragazzi, dove sembra godere di una maggiore serenità. Motivi istituzionali rendono difficoltosa la prosecuzione della permanenza, mentre all’orizzonte della maggiore età si prospetta la conclusione dell’esperienza al centro diurno, quella in cui Donatello è riuscito comunque a trovare un equilibrio più continuativo diventando anche un punto di riferimento per i nuovi ingressi. Si avvicendano anche i Servizi, dal dipartimento materno infantile al centro di salute mentale, con relativo cambio delle figure di riferimento.
Il costante raccordo della terapeuta dei genitori con i nuovi dispositivi in gioco permette una vitale continuità di pensiero attraverso gli tsunami attraversati da Donatello e dal suo nucleo familiare. La conservazione di una pensabilità integrata di fronte ai frequenti agiti e alle massicce identificazioni proiettive hanno permesso una tenuta nel presente e una graduale apertura di prospettive per il futuro.
È così che, dopo anni di successive e talvolta sovrapposte proposte d’intervento, eco nel funzionamento inter-istituzionale della complessità del suo quadro interno e familiare, Donatello decide alla maggiore età di operare una sua prima scelta ben definita: rifiuta la possibilità di un centro diurno per pazienti adulti, rifiutando lo stigma della cronicità, chiedendo ai genitori di poter iniziare una psicoterapia, specificatamente con me, una volta a settimana. Lo fa con la stessa determinazione con cui accettò di venire al laboratorio a patto di giocare soltanto.
Mi sorprende la traccia che i nostri scambi quasi muti hanno lasciato in lui dopo tanti anni e dopo tante figure che si sono avvicendate. Mi sono chiesto quanto il ricercarmi non rispondesse anche al tentativo di recuperare nella travagliata esperienza frammentata di questi anni una parte di sé più conservata, per quanto già allora scissa. Incontrarlo di nuovo dopo tanto tempo, cresciuto, ingigantito nel peso e nella stazza, trasformato nell’aspetto, con lo stesso sguardo intimidito, ma un po’ più diretto, come la voce, tremante ma più in cerca di comunicazione, mi ha emozionato.
Nella domanda implicita di un lavoro verso l’integrazione e la ricerca di un senso di sé, mi accompagna avanti e indietro lungo gli anni trascorsi, avvicinando man mano i momenti più difficili, sia rispetto alle diverse fasi dei suoi investimenti con i pari e con gli adulti che ha riconosciuto come riferimenti al centro diurno, sia nei confronti dell’intrusività materna e delle crisi di cui ora mi parla. Vivendosi ora in una fase di quiete rispetto alla madre, a cui riconosce un ammorbidimento negli anni, può dare voce alla sua rabbia, senza ora agirla fisicamente e distruttivamente, talvolta rappresentandole nei sogni.
In questi due anni Donatello ha provato a mettersi alla prova in qualcosa “in cui posso dimostrare che riesco a farcela da solo”: prima un corso di fotografia – sua passione sviluppata negli anni del diurno – che ha voluto cercare autonomamente nel contesto dei “normali”, rifiutando le possibilità di tirocinio tramite i Servizi. Poi la dieta alimentare a cui si attiene scrupolosamente, infine la scelta di recuperare gli anni scolastici, cimentandosi in un percorso facilitato ma che ne mette alla prova la tenuta sulle capacità di concentrazione e di costanza, insieme allo studio della patente. Mi è inevitabile considerare l’aumentato senso di fiducia nelle sue capacità – per quanto sempre in tensione con l’ansia di fallire che gli procura il confronto con la realtà esterna – strettamente legato all’investimento di un pensiero costante a lui rivolto negli anni sotto le diverse forme intermedie che lui ha potuto utilizzare per poi poter chiedere aiuto spontaneamente per la prima volta.
L’attaccamento che vive rispetto al nostro spazio, di cui non salta una seduta, propone anche un nuovo tema: talvolta, anche se riprendo un suo discorso con parole quasi identiche, tiene a precisare un “no”, cui fa seguire il ribadire il suo concetto. Questo “no” deciso, al posto del compiacente “sì sì” con cui l’avevo conosciuto, ha il sapore di un argine contro le angosce di intrusione di matrice antica. Si è eretto finalmente un confine, anche se a volte ancora duro e impenetrabile, con la funzione di ricompattarlo, di rassicurarlo attraverso una pasta propria non facilmente deformabile e manipolabile, che pur a volte si accompagna a lievi aspetti persecutori, seppur più legati a una deferenza verso il diverso. Il nucleo più persecutorio è legato al suo trauma rivissuto in apres coup, quello dell’invadenza e della violenza dei medici che lo hanno ricoverato “d’accordo con la madre” senza ascoltare le sue ragioni.
Riporto un sogno che per motivi di sintesi non ha la pretesa di entrare nei suoi aspetti contenutistici, ma l’intento di mostrare il lavoro di elaborazione interna di Donatello dei transfert istituzionali e di quello con la mia figura, con un’apertura alla generatività del suo Sé.
Il sogno si divideva in due round, come quelli di un gioco. Nel primo ero in una macchina con altre persone imprecisate e iniziavano ad arrivare dei fulmini fortissimi dal cielo dopo che in aria si era aperto un velo. A quel punto scappavo dalla macchina perché pensavo che sarebbe stata colpita e non era un luogo sicuro. Nel secondo round mi trovo in una specie di negozio con le vetrate che danno sull’esterno. Sulla strada passano dei medici in camice bianco uno in fila all’altro a cui io e tutti quelli che erano con me dentro puntiamo il dito insultandoli. Loro stanno andando all’inferno, come quelli che hanno commesso dei crimini. Io sono con mio padre ma a un certo punto lui mi dice che è uno dei medici ed esce in strada seguendo gli altri. C’è anche un altro padre che fa la stessa cosa con un bambino, affidandomelo. Così resto con questo bambino a osservare da dentro il negozio”. Associa ai medici che lo hanno ricoverato e alla madre che, assecondata silenziosamente dal padre, li avrebbe ascoltati anche se le avessero detto che per il suo bene avrebbero dovuto ammazzarlo. Aggiunge che loro, i medici, si approfittano dei pazienti per lucrare mentre chi veramente aiuta le persone sono gli educatori e gli psicologi, quelli che fanno questo lavoro per passione, pur guadagnando poco.

Specificità del setting in un’istituzione del privato sociale

Nel suo lavoro Bleger (1967), segnala come il setting e l’istituzione siano i depositari delle parti indifferenziate dell’individuo e del gruppo.
L’istituzione, quindi, come il setting analitico, rappresenta un meta-contenitore di funzioni psichiche molteplici. Il suo pensiero è stato ripreso e ampliato in Italia, tra gli altri, da Correale (1999) secondo il quale “l’istituzione -come il setting- può essere definita in modo estremamente ampio come una relazione -o un insieme di relazioni- che si protrae per lungo tempo, regolata da norme condivise”.
Pensiamo, con Cahn (2002), che il setting sia “qualcosa che può essere molto ampio. Può essere un setting a due, un setting genitori-adolescente e medici-responsabili, oppure le riunioni di sintesi che cercano di elaborare, senza l’adolescente, quello che è in gioco in lui. Tutto ciò fa parte del setting nella misura in cui si può considerarlo con uno sguardo analitico, uno sguardo che verte sul materiale, ma in un dispositivo che permette il dispiegamento e l’elaborazione. Qualunque sia il setting concreto, dal momento che lo sguardo è analitico ciò implica un dispositivo per decodificare il materiale. In termini bioniani si potrebbe dire un contenitore”. È all’interno di questo contenitore che l’azione istituzionale – intesa come l’oggetto esterno che con la sua risposta modifica l’oggetto interno – può avere una funzione soggettivante (Aubray, Agostini 2008).
Nel confronto con i servizi pubblici e con il lavoro privato, ci siamo chiesti quale sia la specificità del setting analitico nel privato sociale. In che modo l’organizzazione e le dinamiche istituzionali possono interferire sulle dimensioni strutturali e simboliche del setting?
Rispetto ai servizi pubblici accogliamo gli adolescenti e i loro genitori all’interno di un luogo non medicalizzato che può rimanere tuttavia impersonale rispetto allo studio privato. Abbiamo la possibilità di offrire un trattamento intensivo, che non prevede l’uso prevalente, se non esclusivo, della posizione vis-à-vis. Disporre di un centro clinico ci permette di garantire regolarità e continuità al setting e di non avere problemi rispetto alla durata del trattamento, che nel pubblico è spesso limitata nel tempo in ragione del rapporto tra le richieste e le risorse a disposizione. Il meta-setting [5] istituzionale vede, anche nel nostro caso, la presenza di altri personaggi (amministrativi ed altri professionisti) e la presenza di una sala d’attesa. I nostri interventi non sono gratuiti come nel pubblico ma le tariffe sono calmierate rispetto al privato. La sostenibilità è infatti uno degli elementi che teniamo a mente durante l’accoglimento e che contribuisce alla scelta del dispositivo.
Tutti questi aspetti rappresentano elementi perturbanti del processo analitico che non permettono al setting di essere “muto” (Bleger 1967). Pensiamo a quei contenuti del paziente carichi di angoscia che possono restare fuori dalla stanza e rimanere nella sala d’attesa o nel corridoio non potendo ancora entrare nella relazione. Roussillon (1988) ha definito questi spazi “interstizi” nei quali può trovare posto ciò che non riesce ad entrare nella seduta e che rimane in un luogo “di sosta” proteggendo l’analizzato e in alcuni casi anche il terapeuta. Uno spazio “di passaggio” attraverso il quale questi elementi possono trovare una via d’ingresso per l’analisi o sottrarsi al processo.
Il contesto istituzionale attraversa i dispositivi e influenza la dinamica relazionale con i pazienti, contribuendo in alcune situazioni anche a determinare la natura della loro domanda.
Il contesto istituzionale può quindi offrire uno specifico spazio alle resistenze del paziente ma anche rappresentare un contenitore transizionale, che per essere al servizio del processo deve essere esso stesso analizzato. Certamente il rapporto terapeutico manca di esclusività, ma non per questo di intimità e profondità.
D’altro canto è importante non essere soli.
L’incontro con l’adolescente è complicato. L’operatore non deve negare o sottovalutare l’importanza che l’incontro ha per l’adolescente (Montinari 2006). Bisogna abbandonare obiettivi prefigurati e riuscire a raccogliere una domanda spesso urgente e da prendere al volo (Donnet 1983), facendo attenzione – come ci ha insegnato Novelletto – a rimanere in una posizione di equilibrio tra il suscitare l’interesse (che allarma) e il rischio di banalità (che delude).
L’incontro con l’adolescente difficile impone, inoltre, il dialogo tra più istituzioni e quindi tra campi istituzionali ed emotivi differenti, diverse professionalità, modelli e metodi di lavoro. Da sempre, la nostra guida verso questa necessaria e complessa integrazione è stata il lavoro sulla Mediazione interistituzionale a cura di Novelletto (2003).
Tutti i nostri interventi rivolti ad adolescenti che non possono usufruire di dispositivi psicoterapeutici standard si basano su una metodologia di lavoro multifocale e integrata, in particolare se realizzati in convenzione con i Servizi.
Da un punto di vista organizzativo, tutto ciò implica l’impegno a istituire spazi-tempo per l’incontro, ovvero setting gruppali intra e/o interistituzionali nei quali è possibile lavorare a livelli diversi per rispondere a scopi differenti e favorire l’integrazione (Curto et al. 2016).

Per concludere

Il rapporto tra individuo e istituzione è quindi costantemente mediato da gruppi di lavoro. Kaës, riprendendo il pensiero di Bleger, ha sottolineato come l’istituzione svolga “una doppia funzione psichica: di strutturazione e di ricettacolo dell’indifferenziato” (1988) e come ogni istituzione per assolvere ai suoi compiti si debba organizzare in gruppi di lavoro, “formazioni intermedie” (1996), che si collocano tra l’individuo e l’istituzione, per rispondere ai bisogni narcisistici dei singoli e per garantire all’istituzione una continuità rappresentazionale che le consente di circoscrivere l’angoscia.
Nel nostro lavoro clinico la dimensione gruppale, negli anni, ha rappresentato sempre più una chiave di lettura per capire il mondo interno dell’adolescente, e degli adulti per lui significativi, nelle sue componenti consce e inconsce e la sua articolazione con la realtà esterna.
La gruppalità rappresenta non solo un modo di vedere le cose, da affiancare alla posizione individuocentrica che qualifica la teoria psicoanalitica classica, quanto un metodo di osservazione e di concettualizzazione. Una strategia di descrizione e di indagine da non utilizzare solo per studiare i gruppi, ma per guardare al funzionamento della mente, la mente di una persona che è sempre in relazione con altri.
Ci riconosciamo nelle tesi di Kaës, nella possibilità di pensare ad una struttura e ad una funzione diversa del mentale, che si esplica sul piano organizzativo e dinamico nell’opportunità di utilizzare la mente gruppale come un apparato pluripsichico che supera la forma e la sostanza ormai acclarata delle equipe pluriprofessionali e che risulta più idonea a contenere e a trasformare i vissuti degli operatori e conseguentemente quelli dei pazienti: una mente plurale in grado di comprendere ed integrare gli aspetti scissi e contraddittori (Ferruta 2011).
In questa ottica, il gruppo di lavoro non rappresenta solo il palcoscenico (il contenitore) in cui possono essere rispecchiate e attivate dinamiche complesse che fanno riferimento alle relazioni familiari dei nostri pazienti ma, allo stesso tempo, il dispositivo migliore per garantire l’integrazione dei diversi vertici osservativi.
Questo coinvolgimento nella gruppalità “non ci deve far scordare la nostra dimensione individuale, che non solo c’è ma è altrettanto importante”. Si tratta di tenere insieme queste due polarità: gruppalità e individualità, riconoscendo “il valore della soggettività proprio in relazione all’intersoggettività originaria” (Carbone et al. 2017).
Vogliamo concludere con le parole di Anna Ferruta (2016) che generosamente in questi ultimi anni ci ha supervisionato:
“Quale istituzione? Non certo un’istituzione che pretenda di disciplinare i sogni e i comportamenti, ma una che permetta di vivere uno e molti come singolare e plurale. Non è un’utopia ma una necessità, che richiede tuttavia di elaborare una ferita narcisistica per non trasformare l’istituzione in un apparato disciplinare che fa rinascere il narcisismo dell’uno e che annienta l’altro, sia pure in nuove fattezze, solo apparentemente plurali”.

Cristiano Curto
Psicologo, Psicoterapeuta
Presidente Cooperativa Rifornimento in Volo
Socio Ordinario e Didatta ARPAd (Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza).

Maria Francesca Natali
Psicologa, Psicoterapeuta
Vice Presidente Cooperativa Rifornimento in Volo
Socia Ordinaria e Didatta ARPAd.

Bibliografia

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In (AA.VV.) L’istituzione e le istituzioni. Roma: Borla, 1991.

Note

[1] Il lavoro in cooperativa è organizzato in diverse aree, all’interno delle quali è possibile attivare, dopo da una fase di valutazione, diversi dispositivi: Accoglimento (momento valutativo durante il quale viene prima ipotizzato e poi scelto il dispositivo più indicato); Psicoterapie (psicoterapia individuale, gruppo di parola, sostegno genitoriale individuale, di coppia o in gruppo, terapia senza il paziente); Intermedia (compagno adulto, laboratori psicoeducativi individuali e di gruppo); Educativa (SISMiF, interventi di sostegno alla metodologia allo studio). Altre aree di lavoro sono l’Area Scuola, l’Area Ricerca ed Epidemiologia, l’Area Migranti, L’Area Minori e Giustizia. Attualmente la cooperativa si avvale del lavoro di circa 30 soci e 100 collaboratori.

[2] Asia: luogo dove nasce il sole. Regione geografica del mondo comunemente considerata un continente, parte del supercontinente euroasiatico, una delle tre parti del supercontinente composto da Africa, Europa ed Asia. Non è separata né fisicamente né geologicamente dall’Europa, con la quale forma un’unica massa. E’ il più vasto continente del mondo e di gran lunga il più popolato, ma anche quello in cui sono presenti i più profondi contrasti fisici, umani ed economici. Si estende in tutte e tre le zone astronomiche dell’emisfero boreale: la zona glaciale, temperata e torrida.

[3] Non mi dilungherò volutamente sugli aspetti e i contenuti strettamente clinici, al fine di focalizzare l’attenzione sul processo riguardante la costruzione ed articolazione del dispositivo terapeutico e le dinamiche transferali e controtransferali che lo hanno caratterizzato.

[4] Un ringraziamento alla dott.ssa Pozzoli per la costante e instancabile funzione di sostegno alla genitorialità che non è mai venuta a mancare in questi anni.

[5] Secondo Liberman (1970), ogni elemento del contesto, anche l’ambiente sociale nel quale il trattamento ha luogo e che quindi contiene quindi il setting, finisce inevitabilmente per influenzarlo costituendo un metasetting (ora in Etchegoyen 1986).

 

© Vecchiarelli Editore – Tratto da “Raccolta Articoli Scientifici 2021” – ISBN 978-88-8247-452-2 – Riproduzione riservata